L’altro giorno sulla metro di Roma un tizio, mentre commentava le primarie del Pd, ha detto seriamente: “Ha vinto il fratello di Montalbano. Strano, però, non portano lo stesso cognome.” A quanto sembra, Guy Debord il filosofo francese teorico della “società dello spettacolo” sembrerebbe essere stato ampiamente superato dall’odierno potere illusionista della Tv. La fantasia, lo spettacolo si confondono con la realtà, anzi sono parte della realtà. Purtroppo, c’è da temere che un’altra illusione si stia impadronendo di una parte della sinistra e forse del suo elettorato. Tale illusione è che ora il Pd ritornerà il partito di sinistra che era prima della parentesi di Renzi, quasi che quest’ultimo sia stato un outsider piovuto da Marte.
Si tratta di una concezione molto ingenua e semplicistica che attribuisce a Renzi una mutazione genetica del Pd che, invece, è nata ben prima del Pd e può essere fatta risalire addirittura a quando il Pci si trasformò non in socialdemocrazia ma in partito liberaldemocratico. Non è stato Renzi a iniziare a precarizzare il lavoro, ma Treu. Né è stato lui a fare le maggiori privatizzazioni, a partecipare alle cosiddette “missioni di pace” all’estero, schierandosi sempre con gli Usa e la Nato, anche quando Berlusconi nicchiava (Georgia e Libia ad esempio). Sono stati i governi di centro-sinistra come quelli di D’Alema e di Prodi. Soprattutto il Pd ha sostenuto, essendo segretario Bersani il “sinistro”, il peggiore governo della storia italiana (almeno recente), quello del proconsole della Commissione europea Mario Monti, realizzatore della famigerata riforma Fornero, e poi quello del suo degno successore, Enrico Letta. Né il governo Gentiloni, subentrato a Renzi, ha fatto diversamente, specie in fatto di genuflessione dinanzi ai vincoli europei. La distruzione della forma partito come corpo intermedio centrale della democrazia rappresentativa non è stata opera di Renzi, ma di chi, Veltroni e il gruppo dirigente storico del Pds-Ds-Pd, ha spostato la decisione più importante, quella dell’elezione del segretario, alle primarie e fuori dalle organizzazioni del partito, sul modello oligarchico statunitense. Il punto è che il Pds-Ds-Pd è l’espressione politica degli interessi del settore del grande capitale italiano più internazionalizzato e maggiormente tifoso di euro e Ue. In pratica, il Pd ha rappresentato e può ancora rappresentare il partito liberale di massa che era sempre mancato al capitale italiano.
La crisi strutturale del capitale, l’austerity dettata dall’Europa e il conseguente impoverimento di strati già garantiti di classe lavoratrice salariata e di settori intermedi hanno inferto duri colpi a questo partito, indebolendo la sua base di massa e forse anche la sua credibilità agli occhi di una parte del capitale, quello meno entusiasta della posizione italiana in Europa, specie nei confronti dell’asse franco-tedesco. Ma ora, grazie anche ai media egemonici, l’operazione restyling è avviata: Zingaretti promette di rivitalizzare il moribondo restituendogli una immagine di sinistra, capace di recuperare il voto andato all’M5S. Almeno questa è la speranza di alcuni. Su questo siamo però scettici, perché non crediamo che possa bastare questo, praticamente una operazione di immagine o poco più, un placebo. Del resto, l’ascesa del fratello di Montalbano, tanto esaltata dai media, non pare così irresistibile, anzi si conferma la tendenza di calo della partecipazione alle primarie del Pd. Ai gazebo delle primarie al tempo di Veltroni affluirono 3,5 milioni di elettori, 3,1 milioni con Bersani, 2,8 e 1,8 milioni con Renzi e oggi con Zingaretti 1,6 milioni.
Pensare che Zingaretti che, nel Pd è cresciuto e si è affermato, possa fare diversamente dai suoi predecessori è una pia illusione. Del resto, nessuna autocritica seria è stata fatta da quel partito né da Zingaretti, tantomeno sulla competa aderenza del passato alle disposizioni europee. Infatti, a parte l’immediato sostegno alla Tav, la sua proposta di presidente del partito, l’ex Presidente del Consiglio Gentiloni, non sembra molto in discontinuità col passato, così come la scelta della sua vice, l’ex lettiana ed ex sottosegretaria all’economia del governo Renzi Paola De Micheli. Così come la sua disponibilità a una lista europea con i più filo austerity europea e pro-grande impresa dell’arco costituzionale italiano, come quelli di Più Europa e Calenda.
Il problema è che con Zingaretti può riemergere la vecchia tentazione, all’interno di quanto rimane delle organizzazioni a sinistra del Pd, di resuscitare una formula fallimentare che dovrebbe essere morta e sepolta: il centro-sinistra. Magari cementata dal “pericolo fascista” rappresentato Salvini al posto del pericolo Berlusconi, come è stato per vent’anni e sempre su ispirazione degli stessi maitre a penser con rubrica fissa su la Repubblica e la Stampa. Con i risultati che abbiamo visto in termini di difesa del welfare e del lavoro. C’è la seria possibilità che ci sia qualcuno a sinistra che pensi a una alleanza con il “nuovo” Pd zingarettiano e di “sinistra” o per lo meno a una interlocuzione politica a livello locale e anche nazionale.
Ecco, questa sarebbe la definitiva certificazione della morte politica di quelle organizzazioni. Il punto invece è che la crisi del M5S alla prova del governo – crisi inevitabile e immaginabile, tanto più in un contesto di un voto pochissimo stabile e fedele – sia intesa come il momento opportuno per rilanciare il partito espressione e garante di certi interessi economici e di certe alleanze e accordi internazionali dell’Italia. Di fronte alla crisi del M5S e al tentativo di rilancio del Pd bisogna esser chiari: nessuna collaborazione è possibile con il Pd. Solo un processo di costruzione di un blocco di alleanze politico-sociali autonomo e alternativo al Pd e alle forze sociali ed economiche che rappresenta è pensabile, se vogliamo ricostruire una sinistra degna di questo nome e intercettare gli elettori delusi dall’M5S che altrimenti andranno a ingrossare le file già numerose degli astenuti. I contenuti e non le formule elettorali sono il nodo sui cui confrontarsi e ricostruire consenso e soprattutto radicamento sociale nei posti di lavoro e nei quartieri popolari. A partire dalla rottura sia con i trattati europei-euro sia con le politiche neoliberiste, intimamente legati tra di loro. Le illusioni sul “fratello di Montalbano” rappresentano invece un pericolo di ulteriore rallentamento di questo necessario processo di riorganizzazione, che, anche per la mancata chiarezza sulla natura di classe del Pd e della Ue-euro, è già in grave ritardo di fronte alle necessità della fase storica. Specie in confronto ad altri paesi europei occidentali, dove la ricostruzione di forze di sinistra alternative a quelle che si riconoscono nel Partito socialista europeo, pur non essendo stato ancora completato, è certamente in stato molto più avanzato.
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