La progressive oligarchizzazione del diritto nella UE non si esprime solo attraverso la cosiddetta “hard law” – cioè attraverso quegli strumenti di normazione che hanno valore legale vincolante: i trattati, i regolamenti, le direttive comunitarie, ecc. – ma anche, e forse soprattutto, attraverso la cosiddetta “soft law”, cioè attraverso quelle pratiche e quegli strumenti che «esercitano effetti giuridici rilevanti pur senza possedere efficacia giuridica vincolante». Alla soft law comunitaria sono generalmente ricondotti: raccomandazioni, pareri, libri bianchi e libri verdi, programmi di azione, codici di condotta, risoluzioni, comunicazioni, conclusioni, e anche atti quali semplici “lettere”.
Come spiega Alessandra Algostino, professore associato di diritto costituzionale all’Università degli Studi di Torino, «la soft law comunitaria appa[re] coerente rispetto ad un sistema, liquido, informale e policentrico (non a caso spesso qualificato in termini di governance), sempre più indifferente – e insofferente – rispetto al parametro della legittimazione democratica e rispondente a sovranità altre rispetto a quella popolare. A profilarsi è un conflitto fra ordinamenti, ma non solo: date le caratteristiche della soft law, il conflitto fra fonti rischia di tracimare in una erosione dei parametri democratici».
Un classico esempio di soft law è la lettera inviata il 5 agosto del 2011 dalla Banca centrale europea (BCE) al governo italiano: una lettera, a firma di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet, nella quale si esprimeva la necessità che l’Italia proceda ad una serie di riforme, in aderenza ad una «complessiva» e «radicale» strategia. Gli interventi richiesti spaziavano dalla contrattazione collettiva alle pensioni, dalla liberalizzazione dei servizi pubblici alla disciplina del licenziamento dei lavoratori, passando dalla riforma dell’amministrazione pubblica, per approdare al principio di pareggio di bilancio; senza scordare di indicare anche il tipo di atto con il quale ottemperare.
Scrive Algostino: «Difficile trovare un esempio che meglio condensi i caratteri della soft law, così come dei meccanismi della governance. Informalità e potere di fatto sono gli elementi che si palesano prima facie: da un lato, la non-forma dell’atto – una lettera –; dall’altro, l’esercizio di un potere che esula dalle facoltà proprie del soggetto autore dell’atto, ovvero una carenza di legittimazione, sempre – ça va sans dire – che si muova dal presupposto di un ordinamento democratico. Tutto si gioca nell’ottica dell’effettività, che travolge procedure e forme precostituite così come legittimazione ad intervenire. Una fonte, dunque, la soft law, senza dubbio duttile e fluida, quanto a procedura e legittimazione, non giuridicamente vincolante, ma non per questo meno costringente. L’immagine è quella di una rete a maglie di acciaio. Prova ne è, nel caso emblematico appena ricordato l’assolvimento, puntuale delle richieste avanzate nella lettera».
Come nota Algostino, se da un lato è vero che la mancanza di coazione giuridica fa sì che la soft law richieda un adempimento formalmente volontario da parte dei destinatari, è altresì «evidente che il potere dei soggetti dal quale proviene [in questo caso la BCE] può di fatto coartare la scelta (di ottemperare o meno alle proposte/orientamenti espressi nell’atto di soft law), senza che vi siano una legittimazione, procedure e forme che garantiscano l’ascrivibilità del potere ad un orizzonte democratico». Trattasi dunque di un diritto “morbido” che «si estrinseca non tanto in un annullamento del diritto formale, quanto nella restrizione dei suoi spazi e in una sua subordinazione, con l’esautoramento della Costituzione come higher law».
Un esempio sono le raccomandazioni della Commissione: atti che «mirano a produrre effetti giuridici» anche in quei settori che esulano dalla competenza delle istituzioni comunitarie. «Si può realizzare in tal modo un’indebita – priva anche della copertura costituzionale dei Trattati comunitari – influenza sul legislatore e/o sul giudice nazionale, con un effetto a cascata sulla sovranità popolare, in quanto si produce diritto al di fuori dei meccanismi predeterminati dal quadro costituzionale».
Non si tratta, dunque, solo di un problema “procedurale”, ma di una questione che investe di pieno diritto la questione della legittimazione democratica del diritto. Questo è evidente, per esempio, nella maniera in cui «la Corte di Giustizia si (auto-)attribuisc[e] rilevanti poteri», nella misura in cui essa non si limita a verificare la conformità del quadro normativo europeo, ma spesso e volentieri effettua «un riconoscimento, dal carattere “creativo”, della possibilità per l’atto [anche se in difformità rispetto alla normativa comunitaria] di produrre effetti giuridici, ovvero si pone quasi come una fonte sulla produzione».
Scrive sempre Algostino: «Ciò integra un vulnus rispetto a vari elementi chiave di un ordinamento democratico; per citarne alcuni, la separazione fra i poteri, lo stato di diritto, la legittimazione democratica del diritto. Le violazioni sono poi aggravate dalla considerazione della composizione della Corte di Giustizia: un giudice per Stato membro e undici avvocati generali designati “di comune accordo dai governi degli Stati membri per sei anni”, con mandato rinnovabile. Il requisito dell’indipendenza pare quantomeno lacunoso, a vantaggio, in specie, degli esecutivi. (…) Se a ciò si aggiunge il dato della soft law prodotta dalla Commissione, ma anche dagli altri organi esecutivi dell’Unione, nonché da organi totalmente sganciati da qualsivoglia legittimazione democratica, come la Banca centrale europea, risulta evidente l’espropriazione della produzione di diritto esercitata dall’esecutivo ai danni dell’organo rappresentativo».
Infine, il dato forse più preoccupante: «la soft law comunitaria è suscettibile di influenzare il diritto nazionale. Le fonti europee, come è noto, costituiscono ormai parte cospicua del sistema normativo statale, con tutti i dubbi che ne derivano in ordine all’esautoramento, non tanto della sovranità in sé, quanto della sovranità popolare (stante il citato deficit democratico delle istituzioni e dei processi decisionali in sede di Unione europea, per tacere del possibile contrasto fra i principi fondanti l’Unione europea e i principi fondamentali della Costituzione)».
Conclude dunque Algostino: «In questo senso è evidente una radicale discontinuità fra l’ordinamento comunitario e gli ordinamenti delle costituzioni europee del secondo Novecento e, in specie, quello italiano, fondati sul riconoscimento del pluralismo sociale e politico, sulla sua rappresentanza, sulla prospettiva riequilibratrice e redistributiva dell’eguaglianza sostanziale. I processi delineati hanno progressivamente smussato le tensioni fra l’ordinamento dell’Unione europea e gli ordinamenti statali, ma non nel senso di una costituzionalizzazione dello spazio europeo, bensì, nel senso, inverso, di una de-costituzionalizzazione dei territori nazionali. … La soft law comunitaria, dunque, senza dubbio influenza il sistema delle fonti statali, ma ciò pare declinabile non solo nei termini di una questione di gerarchia (formale e informale) fra fonti del diritto, ma soprattutto come collisione fra la soft law, quale fonte privilegiata della global economic governance, e la Costituzione, quale fonte statale che si oppone alla degradazione degli Stati a meri attori esecutivi delle volontà della nebulosa governante il finanzcapitalismo».
In questo senso, la soft law comunitaria «si pone come diritto parametrato sull’efficienza (economica) in contrapposizione al diritto che nasce dal confronto tra forze politiche che esprimono il conflitto sociale: essa, dunque, ben si presta a interpretare, e veicolare, l’egemonia dell’economico sul politico e l’espulsione delle istanze emancipatorie e redistributive dallo spazio politico e giuridico». Le moderne repubbliche costituzionali, infatti, si differenziano dalle precedenti monarchie assolute proprio per il fatto di non essere l’atto di volontà di un sovrano legittimato dall’esterno – dalla tradizione, dal diritto divino, dalla forza bruta del Leviatano – ma di essere legittimate dall’interno da un popolo come soggetto autonomo che legifera su se stesso. Da qui l’evoluzione moderna del concetto di sovranità, innervato nella nostra Costituzione, inteso non più (semplicemente) come sovranità statuale e nazionale, bensì, appunto, come sovranità popolare. In tal senso, il processo di sovranazionalizzazione del diritto implicito nei trattati europei, dacché presume un trasferimento del potere costituente a istituzioni prive di reale legittimità democratica o popolare, rappresenta per certi versi un ritorno all’era pre-repubblicana dei Leviatani che amministravano il diritto in maniera autoritaria in virtù di una propria autolegittimazione. Nel caso della costituzione economica europea, dunque, si può a ragione parlare di una “costituzione senza popolo” – in quanto tale intrinsecamente postdemocratica – oltre che di una “costituzione senza Stato”. Non a caso Alec Stone Sweet, un noto giurista internazionale, ha definito questo processo un «colpo di Stato giuridico».
Alla luce di ciò, non si può che rimanere esterrefatti nel vedere sventolare le bandiere della UE alla manifestazione del 25 aprile, come si è verificato puntualmente anche quest’anno, come ormai da diversi anni a questa parte: un vero e proprio oltraggio alle «centinaia di giovani morti» che – come disse Pertini – stanno «dietro ogni articolo della Carta Costituzionale».