CORONAVIRUS, LA PANDEMIA ECONOMICO-POLITICA

In questi ultimi mesi si è parlato tantissimo del fenomeno del Coronavirus. E di sicuro se ne continuerà a discutere ancora per parecchio. Naturalmente, essendo questa una rivista di analisi politico-economica, non andremo a trattare l’argomento dal punto di vista sanitario, anche perché dovrebbe esserci, in teoria, già abbondante materiale in merito.

Ma, al di là dei problemi strettamente sanitari, tale epidemia, a oltre tre mesi dal suo insorgere, già sta producendo delle conseguenze di ordine sociale, economico e politico molto rilevanti. E con ogni probabilità, siamo solo agli inizi. Il grosso degli effetti deve ancora venire.

 

Il primo paese colpito da questi effetti è stata la Cina.

La chiusura di numerose fabbriche sta arrecando un danno alla produzione di notevole entità. Parliamo di decine, se non addirittura di centinaia di miliardi di dollari persi. Il che non è poca cosa anche per un gigante come il Dragone.

La città di Wuhan – quella dove il virus ha attecchito inizialmente e dove ha prodotto di gran lunga il più elevato numero di contagiati e di morti – è sede di numerose industrie importantissime. Vi sono presenti ben sei grandi case automobilistiche (Honda, Citroen, GM, Renault, e altre). Inoltre abbiamo industrie farmaceutiche, ottiche, chimiche e high-tech.

E stiamo parlando di una metropoli che per due mesi è stata semi-paralizzata e solo negli ultimi giorni si sta iniziando, peraltro molto cautamente, a riprendere qualche attività.

Ma, anche se in misura molto minore, il coronavirus ha impattato anche sull’economia del resto del paese.

 

Ma probabilmente il problema maggiore non è nemmeno la perdita materiale. Quella si recupera abbastanza facilmente una volta che il morbo sarà debellato, o comunque messo sotto controllo.

Il danno forse più rilevante riguarda i rapporti internazionali di Pechino.

Come è noto, infatti, la Cina ha avuto negli ultimi decenni, e soprattutto negli ultimi anni, una crescita esponenziale nelle sue relazioni economiche internazionali, fino a diventare il primo partner economico perfino di un paese come il Brasile, situato nel “cortile di casa” degli Stati Uniti.

Inoltre Pechino è impegnato nell’implementazione della BRI (“Belt and Road Initiative”, cosiddetta “Via della Seta”), il che comporta la costruzione di infrastrutture in numerosi paesi asiatici, ma anche africani. Il coronavirus sta comportando e comporterà necessariamente il blocco, quantomeno temporaneo, di numerose di queste attività. E per la strategia economica espansiva del gigante asiatico questo comporterà sicuramente un pesante ritardo.

Ma, oltre a ciò, il virus ha prodotto inizialmente un notevole danno di immagine all’estero per il Dragone.

 

Fino ad un mese fa – quando incominciai a scrivere questo articolo – il discorso si poteva limitare grosso modo a queste osservazione e a poco altro.

Ma da allora tantissime cose sono cambiate e sono tuttora in evoluzione.

 

Per rimanere alla Cina, sappiamo come le misure estremamente rigorose adottate dal governo di Pechino sono riuscite a stoppare egregiamente l’aumento dei contagi e il paese inizia, se pur con estrema cautela, a rimettersi in moto.

Lo stesso danno di immagine sta venendo meno, grazie non solo al successo della strategia di contenimento dell’epidemia, ma anche grazie agli aiuti che il Dragone sta fornendo a vari paesi, tra i quali, l’Italia.

 

Nel mese di marzo, come è noto, l’epidemia di coronavirus s’è propagata soprattutto in Italia – e in modo particolare nel settentrione – anche in questo caso impattando drammaticamente proprio sulle regioni economicamente più significative per il Bel Paese.

Ma la pandemia ormai sta dilagando un po’ in tutta Europa e ultimamente soprattutto negli Stati Uniti.

E sta emergendo come in tutti questi paesi la gestione del virus non sarà così risoluta ed efficace come è accaduto in Cina.

Da noi, in Occidente, infatti, vi sono quantomeno due ordini di problemi.

 

Il primo deriva dal fatto che in molti paesi europei – Italia compresa – negli ultimi decenni sono stati effettuati miliardi di tagli alla sanità pubblica, spesso per favorire quella privata. E solo ora un po’ tutti si stanno accorgendo di come la seconda è totalmente inadeguata ad affrontare questo genere di epidemie.

Il caso più eclatante è quello degli Stati Uniti, dove prevale la sanità privata. Il che comporta che milioni di persone non solo non hanno alcuna possibilità di potersi curare, ma nemmeno di poter effettuare il tampone per verificare se sono stati contagiati o meno. Il che di sicuro porta ad una forte sottostima del numero calcolato degli infetti.

Il secondo è dovuto alla mancata volontà di bloccare tutta la produzione non essenziale, come invece è stato fatto in Cina. L’ossessiva ricerca del profitto e il terrore di bloccare la produzione, infatti, sta impedendo una seria politica di contenimento della propagazione del coronavirus, con la conseguenza che i contagi si stanno diffondendo molto più di quanto era accaduto nel gigante asiatico e quasi sicuramente ci vorrà molto più tempo per riuscire a contenere il problema.

 

In questo contesto è emersa chiaramente la totale mancanza di una strategia politica da parte dell’Unione Europea, dove i singoli paesi – e in modo particolare proprio quelli più forti, come la Germania – si sono distinti nel perpetrare un disgustoso arroccamento nei propri interessi egoistici.

Allo stesso modo è venuta meno qualunque collaborazione da parte di un paese in teoria nostro alleato, come sarebbero gli Stati Uniti.

 

La mancanza di solidarietà e di collaborazione da parte di UE e dei paesi della NATO sarà destinata a farsi sentire anche quando la pandemia sarà in qualche modo debellata e a quel punto si tratterà di dover far ripartire di nuovo un’economia pesantemente crollata. Va da sé che senza un robusto intervento pubblico sarà impossibile far riprendere la nostra economia.

Senonché il ricatto del debito pubblico farà apparire questo indispensabile intervento come una spada di Damocle e a quel punto l’uscita quantomeno dall’euro si porrà seriamente all’ordine del giorno.