La sensazione di distanza dal dibattito che ho provato nel momento in cui Renzi ha aperto la crisi è il punto di partenza del ragionamento che proverò a sviluppare.
Nell’eterna transizione italiana dalla prima alla seconda repubblica, che non ha mai visto prendere una forma definita, la gestione di questa crisi evidenzia non solo un basso livello del ceto politico ma soprattutto uno scontro tutto interno a forze politiche “compatibili” o “compatibilizzate” con l’ordine esistente. Forse questo aspetto, da molti sottovalutato, è ciò che emerge con più forza. In realtà questo è l’unico, fondamentale e sicuramente il più importante vero obiettivo raggiunto dalle classi dominanti negli ultimi trent’anni nella lunga agonia delle trasformazioni istituzionali del Paese. A cento anni dalla nascita del Partito Comunista in Italia è un dato che va assolutamente sottolineato.
Ma veniamo a quanto sta avvenendo.
In primo luogo, è evidente quanto faccia gola alle forze politiche la possibilità di poter gestire nei prossimi due anni i 220 miliardi del Recovery Fund. Tale gestione post pandemia potrebbe garantire un consenso in vista della scadenza naturale del 2023 nonché un posizionamento politico e di potere di cui ora si mettono le premesse. Tra le forze in campo l’indebolimento significativo del Movimento 5 stelle, la lenta ma ineluttabile eutanasia di Forza Italia, rappresentano dinamicamente spazi da riempire senza contare l’enorme serbatoio elettorale spinto verso il non voto o una forte mobilità dello stesso. In gioco tra Conte e Renzi c’è probabilmente la volontà di occupare uno spazio politico alla stregua di quanto fatto da Macron in Francia. Uno spazio che rassicurerebbe in prospettiva le stanze del potere che abitano il nostro Paese e l’Europa.
È chiaro che nella partita che si è aperta si giocano partite politiche personali e dinamiche di potere più ampie connesse tra loro. Allo scontro tra Renzi e Conte corrisponde anche un’insofferenza di importanti settori del capitale nazionale e transazionale a cui urgono risposte per affrontare questa fase e quelle successive alla pandemia.
Da questo punto di vista, l’azzardo della crisi aperta da Renzi, con motivazioni espresse evidentemente strumentali, ha proprio Conte come obiettivo. Le elezioni sono l’ultima opzione che Renzi vorrebbe uscisse da tutta questa vicenda, ma allo stesso tempo per lui rimanere nella maggioranza a fare da stampella del premier-avvocato non gli avrebbe garantito la sopravvivenza politica. Da come si stanno muovendo le cose con un altro premier Renzi avrebbe dei vantaggi enormi per ricostruire non solo la sua immagine e la sua forza ma anche per attrarre a sé quei settori di destra moderata che mal si conciliano con Meloni e Salvini. L’alternativa è il voto. Su questo sono in tanti a tremare, prima di tutti il M5stelle che vedrebbe drasticamente ridotta la propria rappresentanza, subito dopo lo stesso Renzi che non reggerebbe all’urto con i propri parlamentari che rischiano di saltare non avendo al momento grandi chance elettorali. In questo senso non sorprenderebbe una corsa di molti parlamentari a spostarsi da una parte all’altra per trovare una qualsiasi maggioranza. Una sensibilità, quella di evitare il voto, che corrisponde anche alla volontà dei settori dominanti impauriti da scenari più scomodi. In ogni caso se nascerà un nuovo governo, come probabile, dopo le dimissioni di Conte prenderà vita un corpaccione ancora più moderato e ancora più attento e sensibile alle richieste di Confindustria e UE. Questo sia se Conte ternerà in sella sia se lo sostituirà qualcun altro.
In fin dei conti la visione che accomuna la variegata maggioranza che ha sostenuto Conte e potrebbe allargarsi, a parte qualche singulto ancora presente nei 5stelle, è l’europeismo, l’atlantismo e una visione compatibile con gli interessi del capitale sovranazionale. Probabilmente esistono sfumature diverse sulla politica internazionale ma la vittoria di Biden, come confermato dall’esplicita citazione di Conte nella relazione alle Camere, terrà ancora più saldamente tutti, almeno formalmente, sotto l’ombrello atlantico. Come non c’è dubbio che i vincoli europei sullo sfondo, all’indomani dell’utilizzo del Recovery Fund, torneranno ad essere perno su cui il cemento centrista proverà a tenere il suo ruolo egemonico.
L’altra parte del parlamento è la destra cosiddetta “sovranista” che, come primo compito, ha quello di essere lo spauracchio contro cui il campo “progressista” viene spinto a compattarsi. Come sempre la destra più radicale mostra la sua essenza nell’essere una conseguenza, un “gas di scarico”, dei limiti egemonici delle classi dominanti. In forme più moderate e con una destra più aggressiva si ridefinisce una comoda dicotomia sotto l’etichetta del “pericolo della destra”. La grande spinta del PD sull’antifascismo in questi anni sta lì a dimostrarlo.
La stessa denominazione “sovranista” diviene il brand di un contenitore reale fatto da vasti settori di ceto medio impoverito, proletario e sottoproletario massacrati da anni di deriva neoliberista sotto l’insegna della UE e che oggi si sentono spinti verso ciò che nel panorama politico nazionale si oppone, almeno apparentemente, al proprio massacro.
In tale contesto è evidente il motivo della distanza a cui facevo riferimento all’inizio dell’articolo. In Parlamento non esiste una rappresentanza coerente degli interessi dei lavoratori e proletari. Potrà esistere qualche episodica sponda ma la costruzione di quella rappresentanza e soprattutto della propria autonoma forza passa fuori da quelle stanze. In questa fase è così e credo lo sarà ancora per un tempo non brevissimo.
Non è da sapere ora l’esito finale di questa crisi. La certezza è che il piatto avrà un accento ancora più amaro di quello servito fino ad oggi.