RIFORMA UE: SCONTRO TRA CAPITALI NAZIONALI E RIPRESA DEGLI AVANZI PRIMARI

A seguito della pandemia sono state sospese le regole europee del Patto di stabilità e crescita che impongono il limite superiore del deficit al 3% sul Pil e quello del debito al 60% del Pil, per permettere agli Stati di far fronte alla crisi più grave dalla fine della Seconda guerra mondiale. Di conseguenza il deficit e soprattutto il debito dei Paesi europei sono aumentati notevolmente. In particolare, il debito pubblico è arrivato nella zona euro a una media del 100% e in Italia al 156% (2020).

La sospensione dei vincoli europei terminerà nel 2022. Questo pone dei seri problemi di gestione del debito europeo. In particolare, crea problemi la regola che impone ai Paesi con debito eccessivo di ridurlo entro venti anni di un ventesimo all’anno per la parte eccedente il 60%. Questo obbligherebbe un Paese come l’Italia a realizzare surplus di bilancio del 6-7% l’anno. In parole più chiare obbligherebbe a tagli draconiani della spesa pubblica e a aumenti notevoli delle tasse, in un periodo in cui l’economia europea deve ancora riprendersi dalla crisi epocale in cui è piombata. Questa cosa non è né fattibile né sensata. Anche perché il costo del debito, cioè gli interessi che gli Stati debbono pagare su di esso, è passato dal 12% dell’inizio degli anni ’90, quando furono ideate le regole di Maastricht, al 3% attuale. A dirlo non è un “sovranista” qualsiasi, ma Klaus Regling, già negoziatore della regola del debito all’epoca di Maastricht e attuale direttore del meccanismo di stabilità europeo, l’Esm.

In vista di questi problemi, la Commissione europea ha iniziato un percorso della durata di due mesi che dovrebbe produrre una riforma delle regole del Patto di stabilità. La discussione vede i Paesi europei divisi in due schieramenti. Da una parte ci sono i cosiddetti “frugali”, otto Paesi del Nord Europa che, guidati dall’Olanda, vogliono mantenere le regole sul debito e sul deficit così come sono. Dall’altra parte, ci sono i Paesi mediterranei, Francia, Italia e Spagna, che sono per modificare quelle regole. La Germania, di gran lunga il paese più importante dell’Europa, non fa parte dei frugali, ma la coalizione Spd-verdi-liberali, che dovrebbe guidare il Paese nei prossimi anni, ha già fatto sapere che intende lavorare sulla base delle regole esistenti.

Ma vediamo quali sono le proposte di modifica delle regole europee che circolano nella discussione in corso. Le più quotate sono tre. La prima, come proposto dal ministro dell’economia francese Bruno Le Maire, ipotizza un approccio differenziato per Paese alla riduzione del debito. Non è possibile applicare a paesi con una situazione debitoria e a economie differenti le stesse regole, in modo particolare quella della riduzione di un ventesimo del debito all’anno per venti anni. La seconda ipotizza una golden rule che storni dal calcolo del debito le spese per le trasformazioni ecologica e digitale. Questo permetterebbe di mantenere alta la spesa in investimenti senza sforare i limiti del deficit. Si pensi a questo proposito che, solo per gli investimenti verdi, si prevede una spesa europea di 350 miliardi all’anno. Infine, i Paesi mediterranei vorrebbero trasformare il programma Next generation EU da provvedimento una tantum, dovuto all’eccezionalità della crisi, in un vero e proprio bilancio europeo che fornisca il pilastro fiscale della Ue, il quale a sua volta rappresenterebbe il presupposto per realizzare la tanto auspicata e ancora lontana unione bancaria e del mercato finanziario.

Riguardo a queste proposte, però, ci sono da fare dei rilievi, che sono almeno di tre tipi. Il primo è il più ovvio: le suddette proposte di riforma troveranno l’opposizione degli otto “frugali” e della Germania. Questi Paesi ritengono che gli investimenti non si finanziano a debito, ma con i profitti che generano, le tasse o i tagli di spesa. Il debito è sempre malsano, indipendentemente da tassi e crescita economica. Senza contare che, sempre secondo i “frugali”, il principio di parità di trattamento sul debito tra i vari Paesi non si tocca perché è garanzia contro la frammentazione di mercato unico, concorrenza e Unione. Il secondo rilievo riguarda il fatto che la trasformazione di NGEU nel nucleo del bilancio europeo mutuerebbe le modalità di erogazione dei fondi dalle regole del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Quest’ultimo, infatti, vincola gli esborsi non solo alla verifica degli investimenti ma soprattutto alla attuazione di riforme, che sono il frutto avvelenato della proposta, perché si tratta di vere e proprie controriforme antipopolari, come quelle sulle pensioni, sul costo del lavoro, sulle tasse, ecc. Quindi, si tratterebbe di rendere stabile un meccanismo di pressione e di condizionamento, in senso ovviamente neoliberista, delle politiche sociali dei Paesi dell’Ue. Il terzo rilievo riguarda i beneficiari della spesa. La golden rule sulla trasformazione ecologica e digitale beneficerebbe le imprese e non la maggioranza della popolazione. Del resto, si è visto che il Pnrr italiano stanzia la maggior parte dei fondi per ecologia (59,5 miliardi pari al 31,1%) e digitalizzazione (40,32 miliardi, pari al 21,1%), mentre destina alla sanità una parte piccola dei fondi (8%), che, fra l’altro, sono rivolti in parte alla sanità privata. Si tratta di una dote di 15,6 miliardi effettivi (più 2,9 miliardi del fondo complementare e 1,7 di React Eu), molto lontana dal fabbisogno di 64 miliardi segnalato dal ministro della sanità, Speranza.

Ciò che appare essere in atto è uno scontro tra Stati e frazioni di capitali nazionali. Da una parte, ci sono la Germania e i “frugali” e, dall’altra parte, i paesi mediterranei, guidati dalla Francia e dall’Italia. L’obiettivo, per i Paesi mediterranei, che hanno subito maggiormente i colpi della crisi e sono penalizzati da debiti più alti, è avere risorse statali sufficienti per sostenere il proprio capitale. La regola su un eventuale storno degli investimenti digitali e ecologici va in questo senso, così come le misure previste dal governo italiano: lo stanziamento di 6 miliardi per finanziare una nuova stabilizzazione triennale del bonus fiscale per Transizione 4.0, il sostegno all’internazionalizzazione delle imprese, il rifinanziamento della Sabatini per l’acquisto di beni strumentali e il fondo di garanzia per le Pmi. Tutto questo non mancherà di impattare sul resto della spesa, a partire da quella sociale e dagli ammortizzatori sociali, che subiranno tagli per permettere di contenere il deficit pubblico. Significativo in questo senso è quanto affermato da Daniele Franco, ministro dell’economia: a causa dell’aumento previsto dei tassi d’interesse, nei prossimi anni bisognerà ritornare agli avanzi primari abituali nell’Italia del pre-Covid. Ricordiamo che la realizzazione degli avanzi primari comporta che, al netto della spesa per interessi, le spese dello stato siano inferiori alle entrate. Quindi, si dà per scontato il ritorno al passato in tempi più o meno brevi. L’Europa è l’unico orizzonte possibile, come non ha mancato di ricordare recentemente Mario Draghi. Le proposte di cui il suo governo si fa promotore in Europa riguardano l’aumento della spesa per certi settori e non per altri. Ad esempio, Draghi non manca di ricordare la necessità di una difesa unica europea, che dovrebbe fornire la base per una politica internazionale comune della Ue sia sul piano politico-diplomatico sia sul piano commerciale. Ciò richiederà un aumento della spesa militare che comporterà il taglio di altre voci del bilancio statale. L’interesse dei settori sociali che appoggiano Draghi è diretto a rafforzare l’integrazione europea e non ad allentarla, procedendo alla realizzazione di un bilancio e una fiscalità unitari che siano alla base di un mercato finanziario e bancario unito, che porteranno alla centralizzazione e al rafforzamento del capitale europeo nei confronti dei suoi concorrenti maggiori, Usa e Cina.

In conclusione, non siamo alle porte di una vera e radicale riforma della Ue, quanto piuttosto davanti a una riforma limitata a favorire alcuni pezzi di capitale europeo in maggiore difficoltà e che lascia sostanzialmente intatto (anzi per certi versi lo rafforza) il ruolo e la funzione delle regole di bilancio europeo tese alla compressione del salario diretto, indiretto (welfare) e differito (pensioni). Si tratta di una ulteriore riprova della irriformabilità della Ue e della centralità del superamento della Ue e dell’euro in una politica complessiva di antagonismo rispetto al modo di produzione capitalistico per come questo si configura in Europa. La lotta contro l’ordinamento esistente, infatti, non può essere scissa dalla modalità concrete nelle quali avviene l’accumulazione del capitale.