Dopo circa nove mesi di governo giallo-verde è possibile tracciare un primo bilancio del suo operato che va commisurato alle aspettative dell’articolato e contraddittorio aggregato sociale che lo ha sostenuto alle politiche dello scorso anno. Un bilancio che può essere supportato, in alcuni aspetti cruciali, dai risultati elettorali avuti in Abruzzo. La vittoria del centrodestra a trazione leghista (la Lega al 27,5% , il doppio rispetto ad un anno fa) e il pesante stop elettorale del M5s (la metà dei voti in percentuale rispetto a quelli ottenuti alle politiche un anno fa, in confronto ad un differenziale percentuale tra politiche e regionali precedenti molto più basso) sono la fotografia dei nuovi rapporti di forza nella maggioranza che già emergevano da recenti sondaggi. Va sottolineato, in questo senso, che ad oggi, oltre all’Abruzzo, sono sei le Regioni governate da una coalizione trainata dalla nuova Lega: Liguria, Lombardia, Friuli, Molise, Sicilia e Veneto. Al contempo la mobilità elettorale è da collocare in una fase fortemente instabile. Quello che è oggi, anche per la Lega, può cambiare radicalmente in poco tempo. Come lo stesso risultato del M5s non può essere letto come un dato di irreversibile arretramento. E questo è confermato ancora di più con i dati dell’astensionismo.
I bassi livelli di partecipazione al voto (ancora in calo rispetto alle regionali del 2014) segnalano una volatilità dell’elettorato ancora più grande rispetto a quello che dicono i numeri dei voti assegnati. Tale dinamicità può rappresentare, allo stesso tempo, la leva su cui impostare un lavoro per iniziare a tracciare un’alternativa.
Accennati alcuni elementi di analisi del voto in Abruzzo, prima di qualunque considerazione, il primo elemento da sottolineare riguarda l’approccio sulla natura di questo governo. Senza capirne la natura si rischia di andare fuori bersaglio o peggio stare al gioco di chi, con richiami ipocriti, dipinge fronti repubblicani funzionali solo a ristabilire quell’ordine politico che negli ultimi venti anni ha significato rigore economico e impoverimento di massa. Da questo punto di vista l’operazione “Macron” in Francia è lì a segnalare che, per quanto efficace possa essere il tentativo delle classi dominanti di dotarsi delle migliori strategie per contenere gli effetti del caos di cui sono portatrici, poi la realtà torna a galla: i Gilet gialli sono li a dimostrarlo. Come è fondamentale sapere che le classi dominanti non hanno un loro Partito ma tendono ad adattarsi per continuare ad esercitare il loro ruolo egemonico.
Per tornare a noi, facciamo un passo indietro. La crisi economica mai superata e la gestione dei governi precedenti, tutta tesa al rispetto della cornice dettata dai vincoli dell’integrazione monetaria europea, ha costituito la base del successo elettorale della ditta giallo-verde il 4 marzo scorso. Come lo è stata l’assenza di un’opposizione di classe e di sinistra in grado di articolare una proposta di rottura fondata su una lettura corretta delle dinamiche e dei processi complessivi che il capitale a livello globale stava e sta determinando.
Da una parte la “sinistra” europeista e dall’altra un sinistra radicale, veicolo di un messaggio confuso e poco incisivo rispetto alle reali sofferenze popolari, hanno sostanzialmente spianato la strada a Di Maio e Salvini. Sull’altro versante la destra berlusconiana ormai è un lontano parente decadente di ciò che ha rappresentato a cavallo degli anni 90 e i primi dieci del 2000 ed è fusa ideologicamente con una parte della sinistra europeista (Pd in testa). La crisi ha spazzato via il collante che ne teneva insieme i fondamentali referenti sociali ed ha logorato, insieme al tempo, la stessa figura del Cavaliere.
La capacità di indicare un nemico da parte di Lega e M5s, gli immigrati e genericamente l’Europa il primo, la casta e l’establishment senza connotazioni il secondo, hanno permesso loro di coagulare una forza lievitata anche attraverso una contraddittoria ma efficace piattaforma programmatica. Da quest’ultima emerge la vocazione del 5stelle di parlare soprattutto a settori di ceto medio impoverito, lavoro dipendente deluso dalla sinistra, vasti strati popolari soprattutto nel Mezzogiorno. La Lega dal canto suo, insieme ai tradizionali settori della borghesia del Nord, spesso egemoni su una parte degli operai della stessa area del Paese, con il mix di Flat-tax e lotta all’immigrazione ha costruito un collante materiale ed ideologico “nazionale” che ha teso da subito a mettere in difficoltà ed in contraddizione la base 5stelle. Metterli in contraddizione ed allo stesso tempo prosciugargli, almeno al momento, una parte importante dell’elettorato come accaduto alle elezioni abruzzesi.
Ma la Lega, in realtà, non appena insediata si è posta con forza l’obiettivo di riaprire un interlocuzione con la grande impresa e i settori più forti del capitale in Italia e non solo. Proprio mentre si spingeva in là in questa direzione aumentava il livello di propaganda sul terreno dell’immigrazione. Su questo aspetto basti pensare al suo atteggiamento dopo la tragedia del ponte Morandi e la questione delle concessioni autostradali o riguardo all’autonomia differenziata regionale che privilegia i settori e le zone più ricche del Paese integrate con le zone più forti del nord Europa. La gramsciana distinzione tra base sociale, i settori di cui si perseguono e difendono gli interessi, e la base di massa, ovvero i settori su cui si alimenta il consenso, con la Lega di Salvini si distinguono con nettezza.
Detto questo, le prime concrete misure del Governo Conte sono un lontano parente di quanto promesso. Come il fuoco e le fiamme promesse contro la UE si sono rivelate piccole scintille domate in poco tempo. Ed è proprio in queste prime crepe che si possono intravedere piccoli spazi su cui agire.
In questa partita delle promesse mantenute la Lega sembra avere la meglio, come su gran parte dell’azione di Governo, seppure siano modesti anche i suoi di risultati concreti.
Infatti, il cavallo di battaglia del M5s, il reddito di cittadinanza, oltre ad essere uno strumento inefficace in sé, perché sostanzialmente non risponde al tema strategico della necessità di ricostituire una base produttiva e quindi di reddito da lavoro, ha assunto una forma assolutamente incapace di dare risposte a tutti coloro che si aspettavano un concreto sollievo alla condizione di povertà. Nei fatti il reddito di cittadinanza ha una funzione assistenziale, molto parziale, insieme a rappresentare potenzialmente un mega-sgravio per le aziende che assumono i lavoratori che usufruiscono della misura. Nella sostanza riproduce in maniera allargata le manovre renziane degli 80 euro ed il reddito d’inclusione insieme al Job act e gli sgravi contributivi. Tutto da verificare nei prossimi mesi l’effetto di rialzo sui livelli salariali più bassi, possibile ma non scontato.
L’altra misura bandiera targata Lega è “Quota 100″. Pur essendo ridimensionata rispetto all'”abolizione della Fornero”, ha un effetto più chiaro e definito per una platea data. Dal dibattito dominante su questa misura emerge l’ormai resa ideologica che anni di riforme distruttive del sistema previdenziale italiano dal 1995 hanno lasciato. È ormai abbattuto ogni elemento di solidarietà tra generazioni o l’idea che la pensione debba mantenere un livello di vita dignitoso. Questo aspetto è sostituito con il principio del dare-avere tra pensione e contributi versati. È la sostanziale privatizzazione del sistema pensionistico.
È ritenuto “normale” che si possa ridurre la pensione del 10, 20 per cento a fronte di 4/5 anni di anticipo rispetto a quanto aveva stabilito la Fornero. Quindi, quanto alla “rivoluzione” promessa si può dire che ad oggi una piccola platea ha ricevuto un relativo vantaggio a fronte di un sistema pensionistico ormai strutturalmente ridimensionato.
Nella sostanza la cifra complessiva del governo è quello di una parziale politica redistributiva, in buona parte vanificata dalla prima timida introduzione della Flat-tax e dai più che probabili aumenti dell’Iva nei prossimi due anni, e soprattutto da un’assenza di investimenti pubblici e, quindi, di una politica di vero rilancio occupazionale.
C’è da aggiungere, ad onor del vero, che dopo anni di “lacrime e sangue” anche misure di scarsa valenza strategica per il miglioramento complessivo delle condizioni di vita nel Paese risultano giustamente “qualcosa” per una larga parte della popolazione. E questo elemento non è da sottovalutare.
D’altra parte le previsioni di peggioramento economico, che sarà amplificato dal modello neo mercantilista dominato dall’export, insieme alla stretta ulteriore che si imporrà in Europa sono lì a consegnare uno scenario che difficilmente i giallo-verdi saranno in grado di affrontare senza essere scalfiti o aumentare la conflittualità interna. E, comunque, qualunque sarà lo scenario politico questo è il quadro strutturale che si sta determinando.
Ma il tema che interessa noi, in Italia, è quale alternativa e soprattutto quale capacità può avere una nuova sinistra di classe di essere un accumulatore di forze reali. E questo sia nel caso che questo Governo abbia un futuro sia che venga sostituito da nuovi scenari che dopo le elezioni europee avremo modo di verificare. Per provare a lavorare in questa direzione è necessario aprire un confronto pubblico sui temi cruciali al fine di far emergere una piattaforma efficacemente aderente agli interessi economici e politici dei lavoratori e dei settori popolari. Una piattaforma che rompa la dinamica perversa che vede Lega e M5s apparire come all’opposizione ed al Governo. Vanno sbaragliati dal campo gli elementi di contorno del dibattito politico e messi al centro gli aspetti decisivi su cui chiedere il conto al Governo ed a tutte le forze parlamentari incapaci di dare risposte. Gli elementi di contorno sono sia quelli gettati come fumo negli occhi dal duo Di Maio Salvini, sia quelli che l'”opposizione” legata al Pd, o quel che ne rimane, mette al centro per “salvare” la democrazia nel nostro Paese. Se non esiste un’opzione in grado di rispondere a questa esigenza le stesse elezioni abruzzesi, dove era assente una qualsivoglia lista di sinistra, disegnano l’esito ridando addirittura fiato, ma solo in termini percentuali, al centro-sinistra 2.0.
In Italia, dopo questo primo anno di Governo Lega-M5s non esiste una forza, nell’arco parlamentare, che esplicitamente propone la rottura dei vincoli europei ed un piano B di uscita dall’integrazione monetaria. Ed è proprio questo il punto che, insieme alla necessità di rilancio della sovranità democratica e popolare, può distinguere il rilancio politico di una sinistra aderente agli interessi dei subalterni. Senza la parola d’ordine di rompere questi vincoli è utopia pensare di rilanciare battaglie attorno agli investimenti pubblici diretti o le nazionalizzazioni, per superare la giungla contrattuale del mondo del lavoro, per ricostruire un tessuto sociale solidale che contenga una protezione reale alle nuove ed alle vecchie generazioni. Senza porsi il tema della Rivoluzione dei rapporti di produzione e di quelli sociali ad essi connessi e con coraggio esprimersi in questi termini con proposte concrete che ne evochino il rilancio, ogni opposizione resterà o al servizio del re o sterile e fine a se stessa. È anche per questo che oggi risultano inservibili cartelli di forze, se non esprimono una definita e chiara impostazione del proprio profilo politico e piattaforma programmatica.
I tempi che abbiamo di fronte in Italia ed in Europa sono di grandi e veloci trasformazioni. Nel loro naturale e spontaneo svolgersi esse si presentano come occasioni in cui candidare ipotesi di cambiamento radicale. Ma questo cambiamento per avere il segno giusto ha bisogno di una soggettività all’altezza, che abbia il coraggio di affrontare un contesto così difficile senza rifiutare la politica ma allo stesso tempo mettendola al servizio di un progetto strategico di ampio respiro. Non accade in un giorno. Ci vuole tempo. Ma il tempo scorre a prescindere da noi ed anche il Governo Giallo-Verde non sarà per sempre. Anzi.