La guerra in Ucraina, fuori dal bombardamento della propaganda, va letta per quella che è. Essa si colloca nello scontro latente da tempo tra il declinante imperialismo statunitense e le potenze emergenti guidate dalla Repubblica popolare cinese con l’Europa nel mezzo come grande potenziale partner.
Il tema della sostituzione dell’egemonia americana trova e troverà il suo culmine attorno al ruolo del dollaro. La sua lenta ma inesorabile sostituzione quale riserva di valuta mondiale è la dead line oltre la quale gli Usa sono disposti a tutto. La loro architettura finanziaria si regge sulla possibilità di pagare i loro debiti commerciali e interni stampando dollari. Senza quel “privilegio” si preannuncia un disastro e i segnali di sofferenza sociale interna rischierebbe di esplodere in pochissimo tempo. Più di un osservatore ha evidenziato il rischio latente negli Usa di una guerra civile.
In questo hanno radice le ragioni dell’evidente volontà americana, espressa dal presidente più imbarazzante nella storia degli Usa, di voler prolungare il più possibile il conflitto ucraino con l’obiettivo di creare un mondo diviso in blocchi, uno dei quali dominato dalla NATO e dagli Usa. Una crescita della cooperazione pacifica tra Cina, Russia ed Europa significherebbe nel medio e lungo periodo la fine di un qualsivoglia ruolo egemonico degli Usa sullo sviluppo globale. In ogni caso un suo notevole ridimensionamento. L’aver spinto la Russia all’attacco militare in Ucraina dopo anni di esercitazioni Nato nell’area, otto anni di guerra a bassa intensità nel Donbass in cui nulla si è fatto per far rispettare gli accordi di Minsk, è il risultato di questo obiettivo.
È necessario sottolineare che l’attacco militare della Russia si innesta in questo quadro e affermare questo non significa essere filo-Putin, da sempre considerato da chi scrive politicamente ai propri antipodi e che con la scelta di invadere l’Ucraina sta contribuendo all’escalation rafforzando e “legittimando” l’aggressività della NATO, ma indicare una cornice dentro cui o c’è una soluzione o c’è il baratro.
In questo senso, con le tensioni aperte in diverse parti del mondo, non è assolutamente un azzardo prevedere che questa guerra possa essere la premessa nell’immediato o in un futuro non lontanissimo di un terzo conflitto mondiale in cui scenari e le stesse alleanze potranno anche modificarsi nel tempo.
Nell’immediato i Paesi Europei, tra cui il nostro, sono stretti nella morsa del patto atlantico non senza contraddizioni. La Germania prima e la Francia poi stanno cominciando con maggiore evidenza a prendere le distanze dalle spinte scellerate di Biden ad aumentare la fornitura di armi pesanti e a rendere ancora più radicali le sanzioni, denunciando la necessità di riprendere un dialogo con Mosca.
Come è ovvio, prima che sul piano bellico, la guerra e le sanzioni stanno cominciando a produrre le crepe e le contraddizioni più profonde sul piano economico. Proprio in questi giorni Scholz, il nuovo cancelliere tedesco, ha dichiarato che il blocco della fornitura di gas da parte della Russia comporterebbe un danno per l’Europa di 180 miliardi di Euro. Un’ecatombe. E questo per la Germania è inaccettabile e insostenibile. Mentre per gli Usa una Germania indebolita e un’Europa chiusa ad est è garanzia del mantenimento del proprio ruolo di potenza egemone almeno su questa porzione di mondo.
Ma veniamo all’Italia. Le posizioni filo atlantiste del Governo Draghi sono state espresse sin dal suo insediamento. Senza dubbio in queste posizioni sta uno dei motivi che ha portato, in piena pandemia, alla sostituzione di Conte con il banchiere romano.
Il nostro Paese è quello che rischia, insieme alla Germania, di pagare il prezzo più alto da questa situazione sin da ora. Basti pensare che per alcune regioni italiane come Umbria, Marche ed Emilia Romagna il mercato russo rappresenta dal 2 al 3% dell’intero Export. Per l’Italia nel suo complesso nel 2021 l’export con la Russia è stato di un valore di 7,7 miliardi di Euro. Ma se si scende nel dettaglio i numeri per queste regioni sono spaventosi. In Umbria nel settore moda la Russia rappresenta il 15% del totale dell’export, nelle Marche il settore delle calzature esporta in Russia l’8% del totale e per la Calabria l’esportazione di macchinari rappresenta addirittura il 47% del totale nel settore.
Il tema importazioni è senza dubbio dominato dalla questione del gas. L’Italia, come la Germania, non potrebbe sostenere il blocco. Il solo aumento dei prezzi, in gran parte dovuto alla speculazione, dell’energia sta cominciando a mettere in ginocchio il Paese, figuriamoci cosa significherebbe un blocco. Insieme al gas dalla Russia si importano olio di semi, cereali e la mancanza di questi prodotti o il loro prezzo aumentato sta spingendo l’inflazione verso l’alto insieme all’energia. Il rischio stagflazione, in questo senso è più di una possibilità.
Questi soltanto alcuni dati economici immediati. Accanto è necessario sviluppare un giudizio politico sul Governo ed il suo operato in questa vicenda. L’interesse nazionale, dopo due anni di pandemia, è completamente calpestato di fronte alla scelta di campo. Probabilmente le pressioni americane sono state a molto più pesanti di quelle che si sono veicolate pubblicamente. Ricordate la frase di Biden “In alternativa alle sanzioni c’è la terza guerra mondiale”. A chi era diretta questa domanda se non all’Italia e alla Germania?
A quanto detto c’è da aggiungere che da parte dell’Italia non si è avuta alcuna azione diplomatica vera per stabilire un contatto con Putin finalizzato prima a prevenire e poi a fermare la guerra. Come fosse immersa in una paralisi della politica estera, completamente schiacciata sullo Zio Sam. Il risultato è che è stata violata e violentata la nostra Costituzione inviando armi per la prima volta dalla nascita della Repubblica. La nostra Costituzione “ripudia la guerra” e quando fa riferimento all’uso difensivo delle armi si riferisce alla difesa dei confini nazionali. Invece, tale scelta mette l’Italia tra i cobelligeranti e ne depotenzia ogni ruolo diplomatico.
Tra le forze politiche i più filo atlantisti sono rappresentati dal PD che maschera, attraverso il richiamo a valori di “sinistra”, il sostegno ad una scelta che ha rimosso la pace dagli obiettivi. Il trattamento subito dal Presidente dell’ANPI per aver assunto una posizione non schiacciata sulla NATO è vergognoso e esemplificativo allo stesso tempo. Invece, nel movimento cinquestelle convivono diverse posizioni: da quelle filo atlantiste di Di Maio fino a quelle di Conte, espresse in maniera contradditoria ed inefficace. Posizioni, quelle dell’ex Premier, che coprono tensioni interne sempre meno comprimibili.
La destra, a parte FDI pienamente schierata su questo con il governo, vive una contraddizione profonda tra la spinta a tenere conto dei vasti settori da sociali da essa rappresentata, insofferenti di fronte alle ulteriori difficoltà dovute alle sanzioni, e la necessità di stare dentro il quadro politico delineatosi con Draghi. Una difficoltà che, seppure sopita, soprattutto nella Lega sta portando sottotraccia a regolamenti di conti interni.
A sinistra qualcosa si muove. Riflettere, discutere e agire è il compito dell’oggi perché si pongano le basi affinché cresca una forte opposizione e mobilitazione contro la guerra mentre siamo entrati in un tornante che ha una valenza storica. È tornato prepotente il tema del bivio tra guerra e alternativa di società, tra guerra e rivoluzione, si sarebbe detto un tempo. Siamo tornati all’essenziale.