Il presidente del Messico, Lopez Obrador, non è andato alla recente “Cumbre de las Americas”, ossia all’organismo che riunisce gli Stati americani, in forma di protesta contro la decisione di Biden di escludere dalla riunione tre paesi, ossia Cuba, Nicaragua e Venezuela.
Il capo di Stato messicano non è nuovo a forme di protesta e di contestazioni indirizzate agli Stati Uniti, sia sulla questione dei flussi migratori, sia su altre questioni, tra cui la denuncia del legame esistente tra le fabbriche di armi statunitensi e le bande criminali che imperversano nel paese.
L’elemento significativo di tale presa di posizione – che non ha precedenti – è che registra un cambiamento molto più ampio nel clima generale dell’America Latina; parliamo di un continente che per più di un secolo è stato considerato – e non a torto – “cortile di casa” di Washington.
La prima ondata progressista che aveva attraversato l’America Latina nei primi anni duemila (avvento di Chàvez in Venezuela, di Lula e poi della Roussef in Brasile, di Morales in Bolivia, dei coniugi Kirchner-Fernandez in Argentina, di Correa in Ecuador e di Mujica in Uruguay) era entrata in forte crisi durante gli anni ’10, e sembrava stesse per esaurirsi.
Negli ultimi anni, viceversa, stiamo assistendo ad un ulteriore e più possente spinta in senso progressista e autonomista rispetto alla secolare subalternità al gigante-USA.
In numerosi paesi stanno trionfando forze e personaggi che incominciano a mettere sempre più in discussione le politiche liberiste degli ultimi decenni e puntando a una vera sovranità economico-politica.
Intanto c’è da registrare la tenuta – non scontata – del Venezuela bolivariano di Nicolàs Maduro (oltre che di Cuba) e il fallimento del colpo di Stato (durato un anno) in Bolivia, con l’elezione di Luis Arce, vicinissimo a Morales.
Ma recentissimi segni di cambiamento vi sono stati in paesi decisamente più grandi e significativi, come in Argentina, dove al reazionario Macrì è succeduto Alberto Fernandez (già ministro sotto i Kirchner), in Perù, dove per la prima volta abbiamo un presidente espressione della grande massa di contadini poveri, Pedro Castillo.
Particolarmente simbolica e importante è la situazione che si sta determinando in Cile, dove da questo marzo, per la prima volta dopo la famigerata dittatura di Pinochet, abbiamo un presidente, ex leader studentesco e appoggiato dal Partito Comunista, Gabriel Boric, il quale sembra voler chiudere definitivamente con la lunga stagione del liberismo.
Da segnalare, anche se più piccolo e meno importante, pure l’Honduras, dove vi era stato un golpe nel 2009, che aveva scalzato il presidente eletto Manuel Zelaya, e dove a gennaio ha vinto Xiomara Castro, una donna progressista (anche lei, come Obrador, non ha voluto partecipare alla Cumbre de las Americas, per protesta contro Biden).
Il Brasile, paese latino-americano più importante di tutti, continua a essere governato dal reazionario Bolsonaro, eletto – va ricordato – a seguito di un vero e proprio colpo di Stato “soft”, in cui era stato giuridicamente impedito a Inácio Lula di partecipare, con accuse false.
Anche lì tuttavia sembra solo una questione di tempo: la popolarità di Bolsonaro è in caduta libera negli ultimi anni – soprattutto a causa della pessima gestione del Covid, che nel paese carioca ha mietuto un numero elevatissimo di vittime – e alle prossime elezioni, che si terranno questo ottobre, le probabilità di una vittoria di Lula sembrano molto alte.
Perfino in Colombia, vera e propria roccaforte di Washington nel continente sudamericano, si stanno manifestando crescenti segnali di insofferenza popolare, che potrebbero presto riservarci delle sorprese.
E poi naturalmente il Messico, premessa dell’articolo. Anche qui, da tre anni, abbiamo per la prima volta un capo di Stato, Lopez Obrador, di orientamento nettamente progressista.
La forte ondata progressista ed emancipatrice (rispetto al dominio USA) a cui stiamo assistendo in tutta, o quasi, l’America latina è senza dubbio il risultato soprattutto di spinte locali, dovute un forte e crescente sentimento di ribellione di massa contro decenni di politiche liberiste, imposte dal FMI (e, in ultima analisi, da Washington).
Non va trascurato però un altro fattore, che è costituito dal mutamento dei rapporti di forza a livello mondiale, che vede gli Stati Uniti sempre più in crisi e in difficoltà a mantenere il ruolo di unica grande potenza mondiale, e, all’opposto, il crescente peso della Russia e ancor di più della Cina. Non è un caso che questi due paesi stiano sempre più intrecciando rapporti economici e di collaborazione a vari livelli (politici e in qualche caso perfino militari) con i paesi dell’America Latina.