Sin dall’insediamento del governo giallo-verde, giornali come la Repubblica ed i media vicini al centrosinistra hanno messo il tema dell’antifascismo al centro prima dell’opposizione e poi di un’ipotesi di alternativa al governo stesso.
Questo aspetto può essere percepito come un fatto positivo. Ma da una lettura attenta, sia dei partiti politici al governo sia dell’effettiva situazione politica italiana ed europea, ci si accorge facilmente che l’antifascismo non può essere la cifra fondamentale dell’opposizione al governo in carica.
In primo luogo, per capire quanto sia strumentale tale approccio è necessario risalire alla definizione del fascismo che ne diede la Terza internazionale, che definì il fascismo “la dittatura terroristica aperta del capitale finanziario”. Ciò significa che il fascismo assunse, dalla presa del potere in poi, la forma di governo attraverso cui le classi dominanti italiane affrontarono la crisi economica e sociale del dopoguerra e schiacciarono le concrete, ancorché potenziali, velleità di conquista del potere politico da parte della classe operaia. Il tutto in un contesto in cui fascismo e il nazismo si affermavano nei Paesi usciti o sconfitti (Germania) o comunque indeboliti (Italia) dalla Grande guerra e si preparavano al secondo tempo dello scontro tra imperialismi, la Seconda guerra mondiale.
La situazione odierna non vede certamente le élites capitalistiche orientate ad esercitare il proprio dominio attraverso forme paragonabili al ventennio, non tanto per convinzione morale quanto piuttosto per la consapevolezza di quanti limiti, rigidità e rischi abbia la forma fascista di governo e di Stato. Nel vecchio continente lo strumento di dominio politico che ha fiaccato ed ha in parte immobilizzato la resistenza, sempre viva in Europa, delle classi subalterne è proprio l’architettura dei trattati e dell’integrazione monetaria. Questa sì che ha rappresentato un vincolo, per quanto “esterno” all’agibilità politica delle classi subalterne, potente almeno quanto il manganello e l’olio di ricino.
Un vincolo esterno che si affianca a quello potentissimo dato dall’oggettiva forza del capitale finanziario che si presenta in maniera impersonale, apparentemente come espressione di un fenomeno naturale. La “democrazia oligarchica” è in questo senso la migliore soluzione per poter esercitare l’egemonia da parte del capitale, riducendo all’indispensabile l’uso della forza. Sistemi politici blindati da leggi elettorali maggioritarie ed una scarsa partecipazione al voto sono in generale la migliore ricetta perché quel tipo di “democrazia” regga.
Da questo punto di vista, non sorprende la posizione fortemente scettica dei settori più internazionalizzati del capitale italiano verso il governo giallo-verde, che sta tentando, soprattutto attraverso la Lega di Salvini, di trovare un equilibrio dinamico con quello che possiamo definire il potere reale del capitale, allargando nello stesso tempo il consenso popolare attraverso la propaganda xenofoba.
E’ evidente, allo stesso tempo, che la crisi da sovrapproduzione di capitale e le politiche neoliberiste, che ne hanno ritardato nell’immediato ed approfondito sulla lunga distanza la gravità, continuano a scavare un solco tra l’esercizio della stessa democrazia oligarchica e le masse popolari, scontente delle peggiorate condizioni di vita e di lavoro.
Non è un caso che le stessi leggi elettorali definite per mantenere la “governabilità” mostrino la corda. Esemplificativo è il caso della Francia. La rapida ascesa di Macron dimostra la capacità delle élites di trovare una soluzione alle difficoltà dei propri partiti organici. Ma, dall’altra parte, la forte e ormai endemica conflittualità sociale dimostra (per esempio attraverso i Gilet gialli) quanto questa soluzione oggi faccia molto più fatica ad essere efficace. Quindi, anche le élite si confrontano con le difficoltà di una realtà che preme per rompere cristallizzazioni createsi nella fase precedente all’esplosione della crisi economica mondiale. Un contesto dinamico che può favorire – e questo interessa noi – la ripresa di opzioni di cambiamento radicale.
La stessa spinta “nazionale” di difesa delle grandi imprese dei singoli Stati è il frutto proprio della crisi, che aumenta l’aggressività e la competizione degli Stati sul mercato mondiale, combinandosi con la necessità di rispondere al malcontento popolare. Una dialettica, quella tra spinta alla globalizzazione e riaffermazione del ruolo dello stato, che sta pienamente dentro le stesse classi dominanti.
In questo senso mettere al centro della battaglia politica l’antifascismo contro il governo giallo-verde nel modo in cui viene espresso dal Partito democratico, vecchio o “nuovo” che sia, significa andare fuori strada per chi si voglia porre in termini di opposizione di sistema. Il rischio è quello di indicare non solo il nemico sbagliato, forzando sulla natura delle forze che oggi sono alla guida del Paese, ma anche ridare spazio a coloro che tale situazione hanno contribuito a determinarla. Se non ci fosse stato il Pd, cioè la sinistra politica, ad apparire come la migliore alleata delle élites di Bruxelles, probabilmente il M5stelle non sarebbe esploso elettoralmente e la stessa Lega avrebbe avuto dimensioni più ridotte.
Le stesse teorie che accusano di “sovranismo” chiunque a sinistra provi a fare un ragionamento di rottura reale con la UE sono di fatto subalterne alle élites capitalistiche non riuscendo ad indicare, concretamente, strade alternative alla gestione “progressista” della vicenda europea. Tali posizioni sposano appieno il cosmopolitismo delle classi dominanti, l’ideologia più adeguata al mercato economico e finanziario globalizzato. Tale cosmopolitismo non ha nulla a che vedere con l’internazionalismo, che presuppone una lotta popolare anche nei singoli Paesi. Una lotta che non può che puntare anche alla riconquista della sovranità democratica.
In sostanza, per costruire la base programmatica rinnovata a sinistra nel vecchio continente ed in Italia, il primo nemico da indicare è proprio la gabbia europea e l’assenza di sovranità democratica e popolare sui temi decisivi di governo del Paese. La seconda è indicare un nuovo paradigma che indichi un chiaro orizzonte di superamento degli attuali rapporti di produzione.
Ciò che più contraddice la Costituzione nata dalla Resistenza sono i trattati europei più di ogni altra azione di Salvini e compagnia. Ne consegue che l’antifascismo del XXI secolo deve guardare in faccia le contraddizioni del presente senza tenere il capo rivolto al passato. Il Governo va combattuto soprattutto sul terreno politico. Bisogna denunciare l’incoerenza tra il programma presentato e gli effettivi risultati raggiunti e le palesi contraddizioni che sempre più lo stanno portando sulla soglia di una crisi di maggioranza. Il governo va attaccato, infine, perché ha gettato fumo negli occhi di una parte del Paese stremata dalla crisi. Ma non può essere l’antifascismo “l’arma” principale nella battaglia contro il duo Di Maio-Salvini.
Questo non significa non contrastare il razzismo e la guerra tra poveri che questo sottende ma farlo da un punto di vista di classe come parte di una battaglia più complessiva per il cambiamento dei rapporti sociali. Allo stesso modo non significa che i fascisti, le organizzazioni come Forza Nuova, CasaPound, Lealtà ed Azione, ed altre ancora non vadano combattute quartiere per quartiere. Vanno respinti e ne va delegittimata l’agibilità che gli viene concessa, e di cui sono in buona parte responsabili le posizioni revisioniste sulla Resistenza degli anni ’90, portate avanti dai gruppi dirigenti del Pds prima e dei Ds poi. Ma bisogna essere consapevoli che tali gruppi restano un problema di carattere secondario e subordinato a un impegno più complessivo contro il carattere sempre più oligarchico del sistema politico.