Il 9 di agosto si sono tenute in Bielorussia le elezioni presidenziali.
Come è noto, il presidente uscente Alexander Lukashenko ha stravinto le elezioni, prendendo l’80,23% dei voti validi, contro il 9,9% della principale sfidante, Svetlana Tikhanovskaya.
Di fronte ad un risultato simile, parlare di presunti brogli non ha alcun senso. Nessun broglio sarebbe stato in grado di dare una vittoria a Lukashenko con margini così ampi. A maggior ragione se si considera che la percentuale di votanti è stata dell’84% (una percentuale che in Italia non vediamo da tanti anni), il che, peraltro, è indice di un elevato livello di fiducia nel processo elettorale da parte del popolo bielorusso.
La netta e sonora sconfitta della Tikhanovskaya – ora espatriata in Lituania – parla chiaro: la stragrande maggioranza dei cittadini preferisce di gran lunga sostenere l’attuale establishment politico, piuttosto che la prospettiva di un “cambio di regime”, che andrebbe a stravolgere completamente il paese, portandolo nell’orbita occidentale ed europea, con tutte le conseguenze del caso, il che significa riforme in senso liberista, e quindi privatizzazioni e tagli a salari, sanità, scuola, ecc.
Non dimentichiamo, infatti, che la Bielorussia è, tra i paesi facenti parte dell’ex Unione Sovietica, quello che probabilmente ha risentito meno di tutti dell’ondata liberista dell’era post-sovietica. Il che non significa che sia rimasto un paese “socialista” – o almeno non in senso stretto – bensì che ha mantenuto un notevole livello di controllo statale sull’economia, nonché un certo, potremmo chiamarlo, “welfare state”.
La sconfitta della Tikhanovskaya è particolarmente rilevante, in quanto quest’ultima è stata palesemente sostenuta e appoggiata dai paesi occidentali, USA in testa (il che di norma si traduce in generosi finanziamenti).
E, come di consueto, questi paesi, nonostante l’esito fallimentare del loro pupillo, non stanno zitti e parlano – tanto per cambiare – di “dittatura”, come d’altronde accade sempre e un po’ dappertutto, quando a vincere le competizioni elettorali di un determinato paese non è una persona loro gradita. E denunciano la presunta repressione brutale da parte delle forze dell’ordine. Insomma, tutto secondo copione.
Certo, gli europei, e soprattutto Washington, desidererebbero tanto un’altra Maidan (la “rivolta di Maidan” fu la “rivoluzione” colorata ed eterodiretta – appoggiata esplicitamente dai paesi occidentali – che portò ad un vero e proprio colpo di Stato in Ucraina nel febbraio 2014). Ma a Minsk sarà molto più difficile che possa ripetersi uno scenario del genere.
Chi spinge più di tutti verso un “regime change”, ossia, un cambio di regime, sono senza dubbio gli Stati Uniti. Il motivo probabilmente è duplice.
Da una parte l’intento è chiaramente quello di indebolire la Russia. Il passaggio della Bielorussia nel campo occidentale, infatti, si tradurrebbe quasi di sicuro in una sua entrata nella NATO e quindi nell’inevitabile creazione di altre basi USA a pochissima distanza da Mosca, come se quelle già esistenti in gran parte dei paesi confinanti con la Russia – europei e asiatici – non bastassero.
Dall’altra parte un cambio di regime a Minsk, o anche solo un aumento della tensione nella zona, potrebbe portare ad un inasprimento dei rapporti tra Mosca e i principali paesi europei (Germania, Francia e Italia), e, di conseguenza, riportare questi paesi sotto un maggior controllo da parte degli yankees. Non è un mistero, infatti, che Germania, Francia ed Italia desidererebbero gestire il rapporto con la Russia in modo più pacifico e soprattutto più autonomo da Washington.
Al momento non è chiaro se questi paesi europei – al netto delle doverose “critiche diplomatiche” – abbiano intenzione di fomentare tensioni e conflitti pure in Bielorussia, come era già accaduto in Ucraina, oppure se intendano mantenere un certo rapporto con Putin, mai venuto del tutto meno in questi anni, nonostante le sanzioni alla Russia.
Ciò che tuttavia appare chiaro ed evidente è che Lukashenko, il quale gode indubbiamente del sostegno della grande maggioranza del suo popolo, intende mantenere un rapporto privilegiato con Mosca, come è stato in tutti questi anni (anche se non senza frizioni). Evidentemente di fronte alla ferocia dell’imperialismo occidentale – e in modo particolare quello degli USA – Minsk preferisce di gran lunga l’amicizia con una potenza, come la Russia di Putin, percepita come assai meno invadente, e che gli ha permesso finora di mantenere un discreto grado di autonomia.