Per capire fino in fondo cos’è accaduto al trasporto pubblico italiano, aereo, marittimo, ferroviario e stradale, è sufficiente raccontare una fra le quattro storie di Alitalia, Tirrenia, Ferrovie italiane ed Atac. Delle maggiori aziende dei quattro comparti due sono già state privatizzate, la terza si comporta come tale e l’ultima quasi, visto che l’attuale sindaca Raggi sta per appaltare ai privati un ulteriore quarto del servizio, che si va ad aggiungere a quello precedentemente dato ai privati da Veltroni e confermato da Alemanno. Vale la pena però soffermarci sulla storia di Atac perché, più delle prime tre, è davvero emblematica della ormai completa subalternità della politica al potere economico. Perché? Perché, mentre in Alitalia e Tirrenia il privato, attraverso la privatizzazione, ha piegato a suo favore l’azione del centrosinistra e del centrodestra, e in Ferrovie italiane ha una quota redditizia da sempre, nel caso di Atac è riuscito a dettare legge a tre sindaci di colori diversi e opposti.
Eppure, il terreno socioeconomico del tessuto produttivo richiedeva, e richiede, l’esatto opposto della privatizzazione di Atac, com’è facile capire facendo tre considerazioni preliminari.
Prima considerazione. A Roma e provincia, negli ultimi trent’anni c’è stato un grande e disordinato fenomeno di migrazione intercomunale, interprovinciale e interregionale che gli enti locali non hanno saputo, e neanche voluto, né monitorare, né governare. È così che gli ingegneri di Atac non hanno fatto altro, letteralmente, che inseguire le persone laddove si insediavano (nelle colate di cemento oltre il Grande raccordo anulare chiamate Centralità, con le quali i palazzinari hanno drogato oltremisura il mercato immobiliare), peraltro spesso con l’indolenza tipica degli impuniti, cioè offrendo loro prolungamenti e adattamenti di linee esistenti, collegamenti provvisori e circolari varie a volte utili soltanto a spostare l’attesa di qualche fermata. A livello delle province non è andata meglio e nei casi meno eclatanti è rimasto quello che c’era, via via sempre più inadeguato. La potenzialità delle tratte ferroviarie è rimasta in gran parte inespressa perché non si sono realizzati i necessari collegamenti con il trasporto gommato.
Seconda considerazione. Mezzo milione di romani continuano ad andare ogni giorno in centro non per goderselo, ma perché il loro luogo di lavoro è li dove non dovrebbe stare ormai da lungo tempo. Si pensi che il primo progetto di trasformazione del centro storico di Roma in isola pedonale risale al 1976. Lo fece il sindaco Argan, quando il Pci andò per la prima volta al governo della Capitale.
Terza considerazione. Da quando, nel 1993, il governo Amato, per venire incontro alle richieste europee di riduzione del debito pubblico, si accollò i 4.500 miliardi di lire di debiti accumulati fino ad allora dal Fondo nazionale trasporti e lo abolì, l’Atac ed il Co.Tra.L (come tutte le aziende del Trasporto pubblico locale italiano) non hanno avuto più la certezza dei finanziamenti, e sono andati avanti nel ginepraio degli anticipi bancari, costretti anche dall’incapacità degli enti locali a spendere le apposite risorse messe a disposizione dalla comunità europea. Si tratta di centinaia di milioni di euro erogati ai paesi della UE, che li dovrebbero girare agli enti locali sulla base di progetti aventi lo specifico scopo di incrementare la quantità e la qualità del servizio. Il problema è che questi finanziamenti sono spendibili solo in presenza di cofinanziamento da parte italiana, cioè da parte degli enti locali. Cosa che è praticamente impossibile a causa dei tagli del Fiscal compact che si scaricano per i due terzi sugli enti locali, che negli ultimi anni hanno subito tagli dei trasferimenti statali molto forti. L’Atac, infatti, risulta creditrice verso il Comune di Roma e, per 2,2 miliardi verso la Regione Lazio. Di questo, i tranvieri e i cittadini romani sono per lo più all’oscuro; nessuno ne parla, e non si sa a chi chiedere informazioni: difficile non pensare che lo si voglia tenere nascosto. Direi fatto apposta per acuire la crisi delle aziende del trasporto pubblico locale, alle quali la stessa UE, sempre attraverso i vincoli di bilancio imposti ai singoli governi, nega di anno in anno percentuali sempre più marcate di risorse, pure dopo la ricostituzione del Fondo (2017) che è concepito come strumento calmierante e non di pianificazione. Insomma: quella di non spendere i soldi dell’Europa, che pure risulterebbero largamente insufficienti, è una scelta politica che fa il paio con quella di subire supinamente il ricatto dell’Europa che, imponendo il pareggio di bilancio a livello di governo, impedisce di spendere i tanti soldi necessari a rimettere in piedi il Trasporto pubblico nazionale. Una vera e propria tenaglia progettata per mandare in crisi le aziende, additarle alla cittadinanza come carrozzoni pubblici inservibili e dannosi, per regalarle quindi ai privati ripulite dai debiti scaricati in quello nazionale. Come accennato in apertura, proprio lo stesso metodo già utilizzato con Tirrenia e Alitalia.
Queste tre considerazioni si riferiscono a tre ambiti specifici che, in quanto riconducibili alla mobilità, hanno in comune il fatto di riguardare direttamente e indirettamente la vita dei romani e dei laziali, il quotidiano di milioni di persone, cioè il sociale, ciò che accade a chi sta in questo territorio. Tale sfacelo descritto dalle tre suddette considerazioni non è frutto prevalente del caso e dell’inettitudine; con un linguaggio d’altri tempi direi che è soprattutto la conseguenza di un duro scontro, oggi in fase acuta, voluto dal capitale per togliere di nuovo ai lavoratori quanto essi hanno faticosamente conquistato con un lungo periodo di lotte. Difatti, da circa tre decenni a questa parte, giocandosi i profitti in Borsa anziché investirli nell’economia reale, ed evadendo sempre più le tasse, gli imprenditori hanno fatto sempre più mancare dalle casse dello Stato i soldi per pagare ai lavoratori salariati tutto quello che li rende persone, cittadini: la scuola, la sanità, i trasporti, la sicurezza e via dicendo. Nel mentre, ma proprio in ogni momento, gli imprenditori sono stati sempre in prima fila a lamentarsi dell’esosità del costo del lavoro e dei servizi prodotti dallo Stato. Mentre, attraverso i loro referenti politici, hanno adoperato i soldi pubblici per comprare voti, sono stati instancabili nel ripetere che le cose le fa meglio il privato. Fra parenti, amici corrotti e parenti e amici dei corrotti, formano un insieme di milioni di persone imbambolate dalla mercificazione, solo in parte minoritaria largamente al riparo dalla mancanza dei servizi pubblici, ma per il resto convinte che a loro non toccherà, che quello che hanno è inattaccabile. Certi che la resa dei conti sia possibile, gli imprenditori sono quindi partiti con l’attacco mirato ai salariati che da sempre hanno rappresentato l’avanguardia dei lavoratori pubblici e privati: i tramvieri e i metalmeccanici. Ricordiamoci che il divieto di sciopero, prima di essere imposto alle tute blu di Mirafiori da Marchionne, stava per essere votato in Parlamento contro i conducenti di mezzi pubblici e fu messo da parte solo in seguito allo scoppio della faida nel centrodestra fra Fini e Berlusconi. In verità, la privatizzazione è servita proprio a ridurre il costo del lavoro, risultando così particolarmente odiosa in quanto beffa che si aggiunge al danno. Altro che storie!
I dipendenti dell’Atac, insieme al resto della cittadinanza di Roma, sono parte lesa di un saccheggio perpetrato ai loro danni, perché la trasformazione in S.p.a. dell’Atac fin dal 1998, ha sottratto i vertici al controllo politico della Giunta e del Consiglio comunale, consentendo loro di moltiplicare gli appalti, di far ulteriormente lievitare il numero dei dirigenti e degli impiegati improduttivi in rapporto alle figure davvero necessarie alla fornitura del servizio, come gli autisti e i meccanici. Come se non bastasse, l’esperienza romana ha dimostrato senza ombra di dubbio che la privatizzazione, partita per volere di Veltroni nel 2000 con un appalto pari a un quinto del totale del servizio e poi elevato a un quarto da Alemanno, è una diseconomia ed ha effetti recessivi. Infatti, se è vero che nel breve-medio periodo si ha un minore esborso perché l’appalto al privato costa meno, se ne ha uno più che maggiore nel lungo periodo. Non c’è tranviere che non lo sappia: gli autobus gestiti dai privati arrivano in ritardo né più né meno di quelli guidati dagli autisti dell’Atac, invecchiano prima, perché sono sfruttati senza ritegno e non rimpiazzati per tempo, e chi li guida guadagna meno, quindi ha meno da spendere. Perciò, a conti fatti, i soldi dati al privato dal Comune non solo non ritornano per intero nelle buste paga dei lavoratori, ai cittadini sotto forma di servizio e all’indotto dei mezzi di produzione, ma su di essi il Padrone fa la cresta risparmiando all’inverosimile con il solo e unico scopo di incrementare il proprio profitto.
Anche un profano si rende conto che il debito di Atac è di proporzioni tali per cui nemmeno una privatizzazione letale per l’economia romana sarebbe in grado di abbatterlo in tempi ragionevoli. Non c’è privato disposto a comprare un’azienda indebitata, il risanamento sarebbe necessariamente a carico dello Stato (come per Tirrenia e Alitalia) e i cittadini si ritroverebbero ancora più indebitati, e per giunta con un servizio ridotto e rincarato. Igiene politica, economica e morale esigono semplicemente che su Atac cessi di pesare non solo il debito, che è costituito per oltre due terzi da soldi che l’azienda s’è fatta anticipare dalle banche portando a garanzia i propri crediti nei confronti della Regione e del Comune stesso, ma anche le assunzioni incongrue e superflue, nonché la miriade di sprechi senza eguali che sono stati messi in atto fino ad ora, anche e soprattutto dopo la trasformazione di Atac in S.p.a. Hai voglia la Raggi a dire che ha salvato l’azienda dal fallimento. La nuda e cruda realtà dice che Atac ha rateizzato 300 milioni di euro di debiti che non potrà pagare se non rispetta il contratto di servizio, cosa molto probabile visto che servirebbero almeno 1900 vetture marcianti mentre ne circolano mediamente 700 in meno, ed è ancora debitrice di un miliardo di euro. E vale la pena ripeterlo: tale miliardo di euro potrebbe quasi essere azzerato se la Regione Lazio e il Comune di Roma pagassero le quote pregresse che Atac ha portato in pegno alle banche per farsele anticipare. La Regione, per bocca dei Governatori che si sono succeduti, si rifiuta persino di discutere, il Comune fa ugualmente finta che la questione non esiste.
Alla fine, dopo 15 anni di promesse elettorali seguite dalla più piatta continuità materiale, i romani si ritrovano presi in giro da Veltroni, Alemanno e Raggi, che non hanno frenato lo sfascio dell’Atac, e costretti in un traffico sempre più caotico e con attese sempre più lunghe alle fermate. I lavoratori, d’altro canto, si ritrovano le buste paga decurtate dalle tre ultime amministrazioni comunali. Queste hanno tagliato il costo del lavoro di 50 milioni di euro (10 milioni Alemanno, 20 milioni Marino e 20 milioni la Raggi), con la scusa del pericolo di fallimento per via del debito insostenibile, senza peraltro riuscire a ridurlo.
In conclusione, l’emblematica vicenda di Atac ci dimostra che, quando il Privato mette le sue mani sui servizi pubblici, per esempio sui trasporti, li riduce, perché non ha interesse a garantire la percorrenza sulle linee a utenza medio-bassa, pure indispensabili a chi vive fuori mano e non ha modo di muoversi diversamente che con l’autobus, e accresce lo sfruttamento senza limiti degli uomini e dei mezzi.
Non c’è quindi alternativa ad una nuova stagione di lotta, che imponga innanzitutto l’uscita del Privato dalla gestione della cosa pubblica, restituendo a noi cittadini il controllo delle aziende da noi finanziate, non solo tramite gli eletti nel parlamentino comunale, ma anche tramite forme nuove di coinvolgimento delle associazioni e dei singoli, per mettere tutti in condizioni di vedere cosa accade in Atac, impedendo alla radice la formazione degli sprechi e delle clientele presi a pretesto per giustificare l’entrata devastatrice del Padrone. In verità, riguardo alle problematiche specifiche, Atac dialoga con i lavoratori e i cittadini già adesso attraverso alcune piattaforme informatiche dedicate, ma si tratta di un dialogo del tutto parziale, e meno che mai vincolante per la dirigenza. Si potrebbe invece dare vita ad un questionario permanente, ben strutturato e approfondito, i cui continui aggiornamenti siano materiale di discussione e di decisione collegiale per Atac, il Settimo dipartimento del Comune che si occupa del trasporto pubblico e per le Associazioni dei cittadini interessate. Riunioni pubbliche e pubblicizzate, alle quali possano assistere tutti quelli che lo vogliano. In prospettiva, poi è indispensabile pensare la rete del Trasporto pubblico locale del Lazio come un tutt’uno, e ogni capoluogo di provincia come un comparto, solo così le necessità possono essere collegate e integrate, raggiungendo economie di scala sufficientemente grandi da innescare risparmi e razionalizzazioni importanti. Parliamo qui della fondazione di un’Azienda Unica Regionale del trasporto, rigorosamente pubblica e dotata di finanziamenti certi, finalmente in grado di offrire alla cittadinanza il servizio efficace ed efficiente che le spetta e che nessun privato, come abbiamo visto, è mai capace e disposto a dare.