IL SEME DELLA VIOLENZA. LE ORIGINI DEL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE

I fatti recenti che stanno insanguinando Israele e la striscia di Gaza non sono certo una novità, ma affondano le radici nel conflitto che da circa un secolo oppone i palestinesi a Israele. Di conseguenza non possono essere visti isolatamente ma vanno inquadrati nel contesto storico.

L’origine del conflitto affonda le radici nell’imperialismo e nel colonialismo di marca europea, che dominava le relazioni internazionali un secolo fa. In particolare, la Prima guerra mondiale, combattuta tra gli opposti imperialismi in lotta per il dominio mondiale, rappresentò un fatto di estrema importanza per i popoli del Medio Oriente. Questi, infatti, prima della guerra ricadevano in gran parte sotto il secolare dominio dell’Impero ottomano. Dopo la sconfitta della Germania, dell’Austria-Ungheria e dell’Impero ottomano, i vincitori che avevano mire imperialiste sul Medio Oriente, la Gran Bretagna e la Francia, si divisero le spoglie dell’Impero ottomano senza alcun riguardo per gli interessi e le specificità dei popoli che abitavano quelle terre, ponendo le basi per l’instabilità e i conflitti che sarebbero sorti nel futuro.

Allo scopo di vincere la guerra la Gran Bretagna, che dominava già alcuni territori arabi come l’Egitto, utilizzò la politica delle nazionalità per disgregare dall’interno l’Impero Ottomano, che aveva un carattere multietnico. La Gran Bretagna fece numerose promesse a vari popoli e movimenti politici per portarli dalla sua parte contro gli ottomani. Tra questi c’era il sionismo, un movimento di nazionalisti ebraici sorto in Europa, che aveva come obiettivo l’insediamento degli ebrei nella Palestina e la costituzione di uno Stato ebraico, senza curarsi del fatto che in quel territorio era già stanziata una popolazione araba.

Nel 1917 il barone Lionel Rothschild, dell’omonima famiglia di banchieri ebraici, sollecitò il ministero degli esteri britannico, guidato da Arthur Balfour, ad approvare una bozza di documento a favore del movimento sionista, che vedeva con favore la creazione in Palestina di “un focolare nazionale del popolo ebraico”. Tale documento è passato alla storia come “Dichiarazione Balfour”. L’impegno britannico era abbastanza ambiguo, ma diede ai sionisti una ulteriore spinta al perseguimento del loro obiettivo: la creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Da parte sua la Gran Bretagna pensava di poter contare sull’insediamento ebraico per continuare a controllare il Canale di Suez e proteggere le vie di comunicazione medio-orientali con l’India, allora parte fondamentale dell’impero britannico.

Dopo la guerra, la Palestina fu posta sotto il controllo mandatario della Gran Bretagna, mentre cresceva l’immigrazione ebraica dall’Europa. Nel frattempo, però, si era sviluppato anche un nazionalismo palestinese. Gli abitanti autoctoni della Palestina si opposero da subito alla presenza sionista sia nelle campagne sia nelle città. Nel 1929 scoppiò una rivolta a Gerusalemme nella quale morirono 133 ebrei e 116 arabi.

Ma l’episodio più importante fu la cosiddetta Grande rivolta (1936-1939), che fu causata dall’emarginazione economica e dal progressivo impoverimento della popolazione autoctona combinate con l’aumento quantitativo e la crescente intrusione della comunità sionista. In quel periodo, quasi la metà dei palestinesi fu costretta a cercare lavoro fuori del villaggio di residenza. Intanto, gli agenti sionisti facevano massicci acquisti di terre, provocando l’innalzamento dei prezzi. Quando le grandi proprietà cominciarono a scarseggiare, i sionisti si rivolsero ai piccoli appezzamenti dei contadini che vivevano al limite della sopravvivenza. Nel giro di pochi anni il 30% degli agricoltori palestinesi era senza terra e il 75-80% dei proprietari non aveva terra sufficiente a garantirsi la sopravvivenza. La Grande rivolta rappresenta un avvenimento centrale, in quanto coinvolse una larga fetta della popolazione palestinese in un movimento coordinato e dotato di un programma. Nel 1937 tra i 9mila e i 10mila combattenti palestinesi operavano nelle campagne, attaccando le forze britanniche e gli insediamenti sionisti. Tuttavia, la rivolta fu stroncata dall’esercito britannico. Circa il 10% della popolazione maschile palestinese fu uccisa, ferita, imprigionata ed esiliata e la dirigenza palestinese venne quasi del tutto eliminata.

Nel 1942 si svolse un congresso sionista a New York, presso l’hotel Biltmore, durante il quale l’ala moderata di Weizmann, che propugnava il gradualismo e la divisione della Palestina tra ebrei e palestinesi, fu sconfitta dall’ala radicale di Ben-Gurion, che era per l’immediata creazione di uno Stato ebraico comprendente l’intera Palestina, anche ricorrendo alla lotta armata (“Programma Biltmore”). Negli anni successivi si intensificarono gli attacchi contro i britannici dell’Irgun e della Banda Stern, organizzazioni terroristiche sioniste. Nel luglio 1946 furono fatti saltare in aria i comandi britannici in Palestina, un attacco a cui partecipò Menachen Begin, futuro primo ministro dello Stato di Israele.

Nel 1947 una commissione della Nazioni Unite, cui i britannici avevano demandato la risoluzione del problema palestinese stilò due relazioni. Quella di maggioranza raccomandava la fine del mandato britannico, la divisione della Palestina in due parti, una araba e una ebraica, e l’internazionalizzazione di Gerusalemme. Quella di minoranza proponeva, invece, la costituzione di un unico Stato federale. La relazione di maggioranza fu influenzata dagli Usa che pensavano al futuro Stato di Israele come a un avamposto occidentale in un’area potenzialmente ostile.

È a questo punto che si verificò l’episodio di gran lunga più importante della storia che raccontiamo: la guerra del 1948, definita dai sionisti guerra d’Indipendenza e dai palestinesi nakbah, che in arabo vuol dire catastrofe. Questa guerra in realtà fu composta di due parti. La prima fu la guerra tra sionisti e palestinesi dal dicembre 1947 al maggio 1948. La seconda fu rappresentata dalla guerra tra sionisti e gli stati arabi vicini, Egitto, Giordania, Siria e Iraq, che iniziò nel maggio 1948 e terminò nei primi mesi del 1949. La guerra fu vinta dai sionisti che sconfissero gli eserciti arabi, impreparati militarmente e profondamente divisi al loro interno sugli obiettivi della guerra. La vittoria sionista provocò due conseguenze fondamentali per la storia successiva. La prima fu la proclamazione immediata dello Stato di Israele. La seconda fu che tre quarti dei palestinesi delle terre occupate da Israele divennero dei profughi cui era proibito far ritorno nelle loro case. L’esito fu quindi disastroso per i palestinesi, dal momento che si trattò, come scrisse l’ex primo ministro israeliano Ehud Barak della “dispersione e dell’esilio di una intera società, accompagnati da migliaia di morti e dalla totale distruzione di centinaia di villaggi”[1]. Lo Stato di Israele incorporò, quindi, l’80% della Palestina, mentre il rimanente era detenuto da Egitto e Giordania.

Alla fine della guerra, le Nazioni Unite organizzarono a Rodi dei colloqui di pace che, però, si arenarono sulla sorte dei palestinesi costretti a scappare dalla loro terra. I paesi arabi ne chiedevano il ritorno in Palestina, gli israeliani il reinsediamento in altri paesi. Su 1,4 milioni di palestinesi, ben 720mila divennero profughi senza patria e Stato, mentre quelli che rimanevano divennero dei profughi interni, tanto che furono sottoposti a legge marziale fino al 1966. Quei pochi che poterono emigrarono nel Golfo Persico, in Europa e in America, tutti gli altri affollarono la striscia di Gaza, la Cisgiordania e i campi profughi nei Paesi limitrofi.

Negli anni successivi Israele sostenne che i Palestinesi si erano allontanati dalle loro case spontaneamente. In realtà, durante la guerra del 1948, Israele usò il terrorismo per costringere la popolazione palestinese a fuggire dalle proprie case. In pratica si trattò di una vera “pulizia etnica”. L’”Operazione Hiram” fu una campagna condotta dai sionisti per operare un trasferimento di popolazione indiscriminato dalla Galilea. Complessivamente furono cancellati cinquecento villaggi palestinesi. Le forze armate sioniste eseguirono “un numero insolitamente elevato di esecuzioni di popolazione civile contro muri o nei pressi di un pozzo con notevole sistematicità”. Vengono citati ventiquattro episodi di terrorismo o massacro. I più efferati avvennero a Saliha (78 uccisi), Lod (250) Dawayma (centinaia). Il più spietato si verificò a Deir Yassin. Qui, secondo un testimone oculare ci fu “Un macello; non un combattimento. Non c’era nessuno da combattere. Erano prevalentemente donne e bambini. Molte, moltissime persone furono massacrate in quel villaggio. Questo massacro terrorizzò l’intera Palestina. Tutti parlavano del massacro di Deir Yassin.”[2]

Sebbene esposte brevemente e schematicamente, queste sono le radici del conflitto israelo-palestinese, che vanno dal 1917 (Dichiarazione Balfour) al 1948 (nabkah). Il seme della violenza, che affligge l’area ancora nel 2023, è questo. Va, comunque, precisato che quanto accadde in Palestina fu un episodio, forse l’ultimo, del colonialismo europeo. La responsabilità di quanto accadde fu in parte importante dell’imperialismo, prima britannico e poi statunitense, che vedeva di buon occhio uno Stato formato da coloni europei in un’area storicamente araba. Infatti, per decenni fino ad oggi la politica statunitense nell’area si è imperniata sull’appoggio pressoché incondizionato a Israele.

[1] Cit. in James L. Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese, Einaudi, Torino 2007, pag. 165.

[2] Cit. in ibidem, pag. 180.