Negli ultimi anni l’immigrazione è stata utilizzata dai partiti di destra che hanno fatto della xenofobia il cavallo di battaglia della loro propaganda elettorale. Ciò non è avvenuto solo in Italia, sebbene Salvini e la Lega abbiano conquistato una notevole visibilità a livello nazionale ed europeo. I risultati elettorali dell’uso della xenofobia da parte della destra sono sotto i nostri occhi in tutta Europa, dalla Francia alla Germania, Paese dove si sono recentemente verificati anche fatti di violenza contro politici favorevoli all’immigrazione, come nel caso dell’assassinio di Walter Lübcke.
Quello dell’immigrazione, essendo un tema “caldo” dal punto di vista politico, è stato spesso approcciato in termini poco oggettivi. Si è fatto poco ricorso ai numeri e all’analisi economica per analizzare il fenomeno o lo si è fatto in modo strumentale per sostenere questa o quell’altra posizione. La sinistra liberale ha affrontato l’immigrazione in modo contraddittorio e alterno. Il Pd, ad esempio, si è mosso o in contrapposizione alla destra in termini “umanitari”, limitando, però, tale umanitarismo alla garanzia dell’ingresso in Italia senza estenderlo coerentemente alle dure condizioni di accoglienza e di impiego della forza lavoro straniera, oppure si è di fatto impegnato su di un programma di respingimenti, come ha fatto con Minniti.
Quanto si muove a sinistra del Pd sembra in alcuni casi limitarsi a un approccio no borders, senza curarsi di come affrontare le ricadute dei flussi migratori a livello popolare. L’arrivo di flussi di decine di migliaia di persone dall’estero bisognose di alloggio, di assistenza sanitaria e soprattutto di lavoro pone dei problemi importanti, specie in un periodo di crisi, di calo del tasso di occupazione e di contrazione degli investimenti pubblici e del welfare imposta dalla Ue. In un quadro del genere, non c’è da meravigliarsi della facilità con cui è stata alimentata, in modo certamente interessato, la guerra fra poveri.
Rispetto all’ambito centrale del lavoro, in certi settori di sinistra ci si è persino spinti a negare che gli immigrati concorrano alla formazione dell’esercito industriale di riserva e, di conseguenza, a esercitare un ruolo di pressione sulle condizioni dei lavoratori occupati. Ovviamente la diminuzione dei diritti e del salario non è esclusivamente dovuta all’esercito industriale di riserva, né, cosa più importante, l’esercito industriale di riserva è prodotto solamente o principalmente dall’aumento dell’offerta di forza lavoro e quindi dai flussi migratori, ma da meccanismi interni al modo di produzione capitalistico, come vedremo più avanti.
Infatti, all’interno dell’esercito industriale di riserva non ci sono solo gli immigrati, ma anche e in maggior numero i disoccupati e i sottoccupati italiani. Inoltre, la concorrenza tra immigrati e italiani non risulta uguale in tutti i settori di un mercato del lavoro, che, non dimentichiamolo, è molto segmentato. Infatti, una delle domande cui cercheremo di dare risposta è se quella straniera è una offerta di forza lavoro che si pone in concorrenza con quella dei cittadini italiani e se sì in quale misura. Il punto è capire come i flussi di immigrazione si inseriscano e quanto pesino all’interno delle dinamiche dell’accumulazione capitalistica degli ultimi anni.
I meccanismi della sovrappopolazione relativa
L’esistenza dell’esercito industriale di riserva – ossia di una massa di disoccupati o sottoccupati – è una necessità per il modo di produzione capitalistico, perché contribuisce a mantenere il salario al di sotto di certi livelli, preservando la produzione di plusvalore e quindi il profitto. La diminuzione dell’offerta di forza lavoro e con essa dell’esercito industriale di riserva consente alla forza lavoro occupata di migliorare le proprie condizioni di vendita, erodendo i livelli di profitto. Infatti, nei periodi di espansione economica e di aumento della domanda di forza lavoro da parte delle imprese si sono create le condizioni migliori per rendere efficaci le lotte e le rivendicazioni dei lavoratori.
Nell’analisi del capitalismo svolta da Marx, la creazione dell’esercito industriale di riserva è legata al fenomeno della sovrappopolazione relativa. Nel processo di produzione capitalistico c’è la tendenza a aumentare, a ogni ciclo di investimento, la quota di capitale costante (mezzi di produzione, macchinari, ecc.) rispetto alla quota di capitale variabile (forza lavoro). Ciò equivale alla sostituzione di forza lavoro con macchinari, che si traduce nell’espulsione di parte degli occupati e/o nell’incapacità di assorbire una parte della nuova forza lavoro giovane che si riversa sul mercato del lavoro. In questo modo, si realizza una condizione permanente di sovrappopolazione che, però, è sempre relativa, cioè si crea una popolazione che è in eccesso rispetto alla capacità del capitale di occuparla in modo produttivo di profitto. Negli ultimi decenni con l’automazione e con l’informatica i processi di creazione di una sovrappopolazione si sono ripetuti a fasi cicliche, soprattutto nella manifattura, dove il numero degli occupati nei Paesi avanzati è diminuito, e più recentemente anche nei servizi ad alta tecnologia. Nei Paesi avanzati alla sostituzione di forza lavoro con macchine e tecnologie più avanzate si è aggiunto anche lo spostamento di parti della produzione nei Paesi periferici. Da ultimo, anche l’aumento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro e l’allungamento dell’età pensionabile hanno contribuito ad aumentare l’esercito industriale di riserva e con esso la pressione sulla forza lavoro occupata.
Esercito industriale di riserva e immigrati
La tendenza alla creazione dell’esercito industriale di riserva e la pressione esercitata da quest’ultimo sulle condizioni salariali e di lavoro degli occupati hanno subito, però, delle spinte di controtendenza. Negli anni ’80 e ’90 il welfare state e i sussidi di disoccupazione in Europa hanno attutito gli effetti della sovrappopolazione relativa, anche se con la crisi del debito e con l’austerity imposta dall’Europa dell’ultimo decennio questa controtendenza è stata ridotta. Ma, soprattutto, la disoccupazione, la precarietà, il ritardo nella conquista di una occupazione stabile e la contrazione della capacità d’acquisto dei salari, unitamente all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro e alla mancanza di servizi per le famiglie con figli, hanno accentuato la tendenza, che è in atto sin dagli anni ’70, alla diminuzione del tasso di natalità e quindi, alla lunga, alla riduzione della forza lavoro occupabile. Del resto, il salario dovrebbe comprendere anche i costi di riproduzione della forza lavoro, cioè il mantenimento dei figli del lavoratore. Di conseguenza, il peggioramento della situazione salariale e occupazionale finisce per minare le fonti stesse della riproduzione della forza lavoro.
In questo modo, la crescita endogena (senza il contributo dell’immigrazione) delle popolazioni europee, in particolare in Italia, Spagna e Germania, si è fortemente ridotta. In Italia il tasso di fertilità è passato da 2,65 figli per donna del 1964 a 1,93 del 1977 fino a calare progressivamente all’1,32 del 2017[i]. E questo nonostante il contributo delle donne immigrate, che anzi tendono ad allinearsi sul basso tasso di fertilità delle italiane. I risultati sono evidenti: al 1° gennaio 2019 l’Istat stima che la popolazione residente in Italia sia inferiore di 400mila unità rispetto al 1° gennaio 2015. Già oggi si hanno meno giovani rispetto alla popolazione anziana e nel futuro la situazione si aggraverà. Sempre in Italia si è passati dai 143,4 ultra 64enni per 100 giovani del 2008 ai 172,9 del 2019[ii]. Il problema, quindi, è che già da oggi e ancora di più nel futuro la sovrappopolazione relativa, soprattutto nei settori più giovani del mercato del lavoro, si riduca a livelli tali da non poter essere funzionale all’accumulazione di profitto. Di conseguenza, per il capitale l’obiettivo diventa il mantenimento, almeno a un certo livello, dell’esercito industriale di riserva, fatto non solo – ricordiamolo – di disoccupati ma anche di sottoccupati.
È qui, come fattore di controtendenza al calo demografico, che entra in gioco l’immigrazione. Questa, infatti, è una variabile che consente di mantenere l’offerta di forza lavoro al di sopra di certi limiti disponendo di una riserva pronta in base alle esigenze congiunturali. Il ruolo dell’immigrazione è basato non solo sul calo demografico dei Paesi europei avanzati ma anche su altri due fattori. Il primo è la concomitante crescita demografica dei Paesi di emigrazione, dove invece i tassi di fertilità sono molto più alti e si crea un surplus di popolazione giovane che è proprio quello che manca all’Europa, la quale invecchia sempre di più. Il secondo è costituito da guerre, spesso indotte dai paesi imperialisti europei e dagli Usa, da crisi ecologiche (carenza di acqua e inaridimento dei suoli) e nel complesso dal carattere, sempre più dipendente dai Paesi più avanzati, dello sviluppo dei Paesi di emigrazione. Aspetti questi che riducono le prospettive occupazionali dei giovani, contribuendo ad aumentare i flussi di emigrazione verso l’Europa.
Ad ogni modo, a proposito della centralità del calo demografico dei Paesi più avanzati dell’Europa, sono significative le parole di Lars Feld, già consigliere del governo tedesco: “La Germania non potrà mai crescere come gli Usa per colpa del nostro trend demografico, che avrà un peso tremendo sulla crescita. […] servirebbe un aumento dell’immigrazione netta troppo elevato”[iii]. Secondo Thomas De Maziere, ex ministro degli interni tedesco, bisogna rimuovere tutti gli ostacoli all’ingresso degli immigrati nel mercato del lavoro, compresa la norma che impone la conoscenza della lingua tedesca: “Credo che il modo migliore per imparare il tedesco sia sul posto di lavoro, bisogna portare più persone nel mercato del lavoro anche se non parlano un tedesco perfetto.”[iv]
Per capire l’impatto dell’immigrazione in Italia non è sufficiente fermarsi all’incidenza degli immigrati sulla popolazione totale, ma bisogna osservare sia l’incidenza sui settori più giovani, e quindi maggiormente importanti per il mercato del lavoro, sia la velocità della crescita. La popolazione straniera in Italia è l’8,5% del totale, ma è quasi il doppio (15,7%) fra i giovani maschi tra 25 e 39 anni. Inoltre tra 2009 e 2018 la crescita media annua della popolazione straniera in Italia è stata tra le maggiori dei Paesi più importanti dell’Europa occidentale (+4,2%), registrando il maggiore divario rispetto alla crescita della popolazione autoctona (+0%) (Fig.1). In valori assoluti tra 2009 e 2018 gli stranieri sono passati da 3,4 a 5,14 milioni, con un incremento di oltre 1,7 milioni di unità (+51,2%)[v]. In tutti i Paesi considerati, con l’eccezione della Spagna, il tasso di crescita della popolazione straniera è molto al di sopra di quello della popolazione autoctona. Si tratta di un dato importante considerando che tale incremento si è concentrato in un tempo breve e proprio nella fase peggiore di crisi e di austerity.
Fig. 1 – Stranieri su popolazione nel 2018 e variazione media annua di stranieri e nazionali tra 2009 e 2018 (in %; variazione scala destra)
Fonte: Eurostat
Immigrati e mercato del lavoro
Negli ultimi 10 anni, tra 2008 e 2018, gli occupati complessivi sono diminuiti di 112mila unità passando da circa 22,7 milioni a circa 22,6 milioni (-0,50%). Nello stesso periodo di tempo, però, l’andamento di italiani e stranieri è stato divergente. Gli italiani sono scesi da 21 milioni a 20,2 milioni, cioè sono diminuiti di 848mila unità (-4,0%). Al contrario gli stranieri sono aumentati di 735mila unità (+43,7%), passando da 1,68 milioni a 2,41 milioni (Fig. 2).
Fig. 2 – Andamento degli occupati italiani e stranieri (in migliaia; 15-64 anni; stranieri scala destra)
Fonte: Eurostat
Il differente andamento dell’occupazione straniera e autoctona ha portato in Italia all’aumento dell’incidenza degli stranieri sul totale degli occupati, che è più che raddoppiata, passando dal 5,2% del 2005 al 10,7% del 2018. L’incremento in Italia è stato maggiore rispetto agli altri Paesi più importanti e alla media della Uem proprio nel periodo peggiore della crisi tra 2009 e 2015. L’incidenza degli immigrati sul totale occupati si è, però, stabilizzata negli ultimi tre anni, tra 2015 e 2018, rimanendo superiore a quella media della Uem.
Fig.3 – Incidenza in percentuale degli stranieri sugli occupati (15-64 anni)
Fonte: Eurostat
Il dato aggregato, però, non è sufficiente soprattutto per capire il grado e la qualità della presenza degli immigrati nel mercato del lavoro. In primo luogo, bisogna rilevare che gli stranieri sono presenti soprattutto, anche se non esclusivamente, nel lavoro dipendente. Inoltre, l’andamento tra gli stranieri di dipendenti e indipendenti è differente. Infatti, gli stranieri, negli occupati (di 15 e più anni) dal 2008 al 2018 crescono nei dipendenti in termini percentuali di oltre il doppio (+49,4%; +709mila unità) rispetto agli indipendenti (+21,8%; +56mila unità). Gli italiani registrano un andamento inverso, rimanendo quasi stabili fra i dipendenti e diminuendo di 650mila unità (-10,9%) fra gli indipendenti.
Per quanto riguarda i settori d’attività nel lavoro dipendente, l’incremento tra 2008 e 2018 è stato più forte nell’agricoltura, settore in cui gli immigrati sono triplicati passando da 48mila a 151mila occupati, in altri servizi (+70,2%) e nel commercio, alberghi e ristoranti (+69,5%). L’incidenza degli immigrati sul totale occupati nell’agricoltura raggiunge quasi un terzo del totale, passando dal 12,1% del 2008 al 32,1% del 2018. Gli occupati immigrati delle costruzioni, a causa della crisi diminuiscono (-9,6%) ma molto meno degli italiani, il che li porta a passare dal 16,2 al 21% sul totale di settore. Seguono il commercio, alberghi e ristoranti, che passa dal 7,8 all’11,9% del totale occupati dipendenti, le altre attività di servizi[vi], che passano dal 7 all’11%, e l’industria escluse le costruzioni, che passa dall’8,7 al 10,1% (Tav. 1).
Un dato ulteriormente significativo è il confronto tra immigrati e italiani rispetto alla professione. Gli immigrati sono maggiormente concentrati nelle professioni operaie e non qualificate: nel Nord il 62,7% contro il 39,3% degli italiani e nel Mezzogiorno il 66,2% contro il 33,8% degli italiani. La presenza degli immigrati nelle professioni qualificate raggiunge appena l’8,6% nel Nord e il 3,4% nel Mezzogiorno[vii].
L’approccio all’immigrazione come ricomposizione di classe
Il permanere del numero degli occupati nel 2018 al di sotto del 2008 è da imputare essenzialmente alla contrazione dei lavoratori indipendenti italiani, che sono stati sostituiti solo in minima parte dagli immigrati indipendenti. Tra i lavoratori dipendenti gli immigrati sono molto cresciuti, mentre quelli italiani sono rimasti stabili. Dai dati per settore d’attività e per professione si ricava che gli immigrati saturano alcuni settori dove c’è carenza di offerta di forza lavoro autoctona, come i collaboratori domestici e gli addetti all’assistenza personale, o come l’agricoltura, dove le condizioni di lavoro sono particolarmente dure e le retribuzione basse. Tuttavia, la forza lavoro immigrata risulta sempre più presente anche in altri settori di attività. In particolare nelle professioni a più bassa qualificazione o nelle professioni operaie, dove, però, la presenza italiana rimane importante, anche perché molti italiani con titoli di studio medio-alto sono costretti sempre più frequentemente ad accettare condizioni di impiego al di sotto della propria qualifica e a salari più bassi. In particolare, va segnalata l’industria con l’esclusione delle costruzioni, dove i dipendenti stranieri, a fronte di un calo complessivo dovuto agli italiani, tra 2008 e 2018 sono saliti nonostante la crisi da 368mila a 421mila, pari a quasi il 20% del totale dei dipendenti immigrati. Soprattutto va segnalata la crescita dei servizi, dove gli immigrati passano da 818mila a quasi 1,4 milioni, pari al 65% del totale immigrati, con un incremento in valore assoluto maggiore di quello degli italiani (Tav. 1).
La distribuzione degli immigrati tra i diversi settori rivela come questi siano considerati come una riserva di forza lavoro da utilizzare, in settori peraltro già colpiti dalla crisi o nei nuovi settori dei servizi a basso valore aggiunto e quindi con retribuzioni più basse e minori tutele. È evidente, quindi, che, senza contare altri aspetti della vita sociale (casa, sanità, ecc.), gli immigrati possano essere percepiti come concorrenti da parte di settori della forza lavoro di nazionalità italiana, che sono di livello più basso ma non irrilevanti numericamente. Si tratta di settori che sono già in difficoltà per le conseguenze della crisi della manifattura e soprattutto delle costruzioni e cercano una occupazione sostitutiva nei settori dei servizi a basso valore aggiunto, specie in attività come il turismo, la ristorazione, la logistica, che si sono espansi negli ultimi dieci anni.
Il punto è che quello dell’immigrazione è stato fatto diventare un problema per i lavoratori e i disoccupati autoctoni. I flussi degli immigrati, invece, non rappresentano un problema in sé ma solo se inseriti nello specifico contesto italiano ed europeo, cioè in un contesto in cui si è ridotta drasticamente la capacità del sistema economico capitalistico, ancora avviluppato nella stagnazione, di creare un adeguata offerta di posti di lavoro, specialmente posti di lavoro qualificati, e in cui il welfare è stato contratto. È necessario, quindi, rovesciare dialetticamente la questione, facendo sì che quello che appare come un problema per i lavoratori diventi un problema per il capitale. La soluzione, quindi, non sta nell’attaccare i lavoratori immigrati, magari con la motivazione che sono un esercito industriale di riserva, e alimentare così la guerra tra poveri. Al contrario, la soluzione sta nella costruzione di una dimensione unitaria delle lotte e delle rivendicazioni sul piano del salario diretto, che si riceve in busta paga, e indiretto, che si riceve sotto forma di servizi. Questo comporta tre tipologie di intervento. La prima e più importante è sugli investimenti pubblici, che devono essere tali da rilanciare l’economia e la domanda di forza lavoro. La seconda è la lotta al lavoro nero e la definizione di un salario minimo orario adeguato, rivolto proprio a quei settori a basso salario e scarse o nulle tutele dove il lavoro immigrato trova impiego più frequentemente. La terza è il rilancio del welfare massacrato da un decennio di tagli, e che deve comprendere la sanità ma anche un piano di edilizia popolare. Tutto questo, però, richiede la rottura in primo luogo con i vincoli europei e in secondo luogo con il meccanismo di concertazione con il capitale, aspetti che la triplice sindacale non vuole mettere in discussione. È una contraddizione in termini voler rimanere in questa Europa e essere insieme per l’accoglienza degli immigrati, in quanto la seconda è incompatibile con la prima. Per questa ragione la questione dell’immigrazione è centrale, non perché ci sarebbe una invasione di immigrati in corso, ma perché l’immigrazione è una delle questioni che permette far emergere le contraddizioni del capitalismo dell’epoca attuale e del sistema sociale e politico che vi si erge sopra.
L’immigrazione, però, deve essere approcciata dalla sinistra di classe nel modo corretto, senza subalternità né nei confronti di chi agita la paura dell’immigrato, né nei confronti di chi riduce la solidarietà nei confronti degli immigrati al solo piano etico e umanitario, nascondendo così la funzionalità dell’immigrazione all’accumulazione capitalistica. Il punto è svelare l’uso che le imprese, grandi e piccole, fanno dell’immigrazione, senza prendersela con il nemico sbagliato cioè con gli immigrati, ma individuando il nemico comune, ossia il capitale. I lavoratori e i disoccupati immigrati vanno considerati come una parte, sempre più importante, della classe lavoratrice. Il problema con cui dobbiamo confrontarci è che il processo di accumulazione capitalistico ha frammentato i lavoratori. Tale frammentazione non riguarda solo gli immigrati ma anche gli italiani, suddivisi, sia sul piano economico, in una pluralità di contratti e di rapporti di dipendenza dal capitale, sia sul piano ideologico e territoriale, come sta avvenendo con l’autonomia differenziata. Per queste ragioni l’approccio alla questione dell’immigrazione non può essere di tipo etico o genericamente umanitario ma di ricomposizione di classe. L’immigrazione non va intesa come una questione etica o umanitaria, ma come una questione che ha a che fare con la ricomposizione complessiva della classe lavoratrice. Non è possibile ricostruire una posizione di sinistra antagonista nei confronti del capitale senza un programma che sia funzionale a una tale ricomposizione.
[i] Eurostat, Fertility indicators.
[ii] Rapporto annuale Istat, 2019. Cap. 3 – Tendenze demografiche e percorsi di vita
[iii] Il Sole24ore, 3 settembre 2015.
[iv] Il Sole24ore, 3 settembre 2015.
[v] Eurostat, database, Popolazione per sesso, età e cittadinanza.
[vi] Tra gli altri servizi troviamo le seguenti professioni in ordine di numerosità: collaboratori domestici, addetti all’assistenza personale, addetti ai servizi di pulizia di uffici ed esercizi commerciali, facchini, camionisti, venditori ambulanti.
[vii] Istat, Rapporto annuale 2019, Cap.3.
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