Recentemente si sono tenute le elezioni presidenziali in Russia. Com’era facilmente prevedibile, queste sono state stravinte da Vladimir Putin, con una percentuale mai raggiunta in precedenza: l’87% delle preferenze. Un simile risultato non lascia dubbi circa il consenso di massa di cui gode il presidente della Russia; ossia, anche ipotizzando presunti brogli, pressioni o condizionamenti vari, questi non avrebbero potuto in nessun caso produrre da soli un risultato di tale entità.
Che questo esito non faccia piacere ai paesi occidentali – reazione altrettanto prevedibilissima – si nota chiaramente dai vari commenti negativi, dall’esaltazione nemmeno tanto nascosta di alcuni episodi illegali di qualcuno che protestava e addirittura dal proliferare dei vari video-fake, come ad esempio quella sui militari russi che avrebbero controllato i votanti alle urne.
D’altronde è da parecchi anni ormai che da noi la Russia e il suo sistema politico vengono messi sistematicamente in cattiva luce, in modo talmente insistente, quasi martellante, che ormai è diventato luogo comune che quel paese sia diretto da una non meglio specificata “oligarchia” e che politicamente sia una dittatura. A Putin in modo particolare viene quotidianamente dato l’appellativo di “zar” o di “autocrate” dai nostri giornali, televisioni e social vari, ma anche da parte di esponenti politici di alto livello.
La dimostrazione di ciò sarebbe la repressione – vera o presunta – operata dal cosiddetto “regime” nei confronti di alcuni giornalisti e oppositori, con arresti e fino all’uccisione della Politkovskaja e della recente scomparsa di Navalny, peraltro episodi per cui la responsabilità del governo russo è tutta da dimostrare e che accadono anche in paesi che da noi sono considerati “democratici”, come, tanto per fare un esempio, l’incarcerazione di Julian Assange. Questa tendenza alla demonizzazione della Russia e di Putin ha subito un ulteriore aggravamento negli ultimi due anni, ossia da quando Mosca ha deciso di intervenire militarmente in Ucraina, nella guerra già esistente dal 2014 del Donbass.
Tale narrazione si scontra tuttavia con alcuni fattori, che – seppur insufficienti – sono tuttavia indicativi di una vitalità politica della società russa, che non ci aspetteremmo in un regime dittatoriale. A cominciare dalla partecipazione al voto, che risulta in crescita e che ha superato il 74% – una percentuale che in Italia non si vede più da decenni – e che testimonia di una certa fiducia nel processo elettorale da parte loro. Poi ovviamente anche la partecipazione alle elezioni di altri partiti e candidati a presidente.
L’incredibile consenso che ha ottenuto Putin (l’87%) non si può banalmente liquidare – come viene fatto da noi – come dimostrazione che lì ci sia una dittatura, altrimenti ci auto-condanneremmo a non capire nulla di ciò che accade da quelle parti. Al contrario, si tratta di un sentimento ben presente nella società russa.
Tale consenso ha ricevuto senza dubbio un grande incremento proprio a causa della decisione di intervenire militarmente in Ucraina contro, di fatto, la NATO e l’Occidente, più che contro gli ucraini, che i russi hanno sempre considerato un popolo fratello (anzi, i due popoli spesso non sono così nettamente distinguibili e numerosi ucraini sono russofoni e si sentono russi). Il continuo allargamento della NATO verso est è stato sempre avvertito dagli ex sovietici come una chiara minaccia nei loro confronti, come un tentativo di indebolire, dividere e sostanzialmente distruggere la Russia, almeno come potenza.
Determinante poi, per la crescente simpatia verso il presidente russo, è il fatto che Mosca questa guerra la sta vincendo (anche se da noi si continua a negarlo).
Curioso è – in tal senso – il comportamento del partico comunista russo, il PCFR, notoriamente il secondo partito, dopo Russia Unita (quello di Putin): la candidatura di Kharitonov, personaggio di secondo piano, sembra sia stata voluta apposta per non erodere troppi voti a Putin. Questo perché sull’intervento militare il PCFR si trova d’accordo e ha calcolato che in un momento di emergenza come questo non fosse il caso di indebolire il governo.
L’enorme consenso di cui gode Putin tuttavia non può essere spiegato soltanto con l’intervento militare e l’andamento positivo della guerra, ma vi sono altri fattori.
Dopo il decennio di Eltsin (anni ‘90), dominato da politiche di smantellamento di ciò che di socialista era rimasto nell’ex URSS e soprattutto di svendita di buona parte delle colossali risorse russe agli interessi di rapina dell’Occidente, nonché della riduzione del paese a semi-potenza, di fatto subalterna all’UE e soprattutto agli USA, l’arrivo di Putin ha segnato un netto cambiamento di rotta: non solo egli ha lavorato per ridimensionare il potere di quegli “oligarchi” vicini all’Occidente, ma è riuscito nella non facile impresa di riportare gradualmente la Russia ad un ruolo di potenza internazionale, che da decenni non si vedeva, come si era già visto con l’intervento in Siria nel 2015.
Ma la cosa forse più importante è un’altra: le politiche economiche del governo russo non sembrano improntate alla logica ultra-liberista che domina da noi in Occidente. Lo Stato non solo investe nella produzione, ma sta sempre più praticando politiche di aiuto ai salari e alle pensioni. Insomma, una politica di redistribuzione delle ricchezze, che noi ci sogniamo.
Ora che le conseguenze negative delle sanzioni occidentali – peraltro assai meno gravi di quanto si prevedeva da noi – sono state in gran parte superate, la Russia sta conoscendo un periodo di crescita economica, grazie anche al rafforzamento delle relazioni con la Cina, con gli altri membri del BRICS+ e con altri paesi del mondo.
Un ultima considerazione: la presidenza di Vladimir Putin, che data ormai da 24 anni, è un fenomeno che non sembra avere riscontri nei paesi occidentali e liberisti, dove il continuo ricambio di governi tradisce non l’esistenza di una “democrazia”, come si vuol far credere, bensì la realtà fatta di settori dominanti – costituiti dal grande capitale finanziario e dalle multinazionali – ai quali non conviene immedesimarsi troppo in un singolo partito o in un leader specifico, bensì destreggiarsi tra forse “rivali” – più in apparenza che in realtà – in un contesto di alternanza, che non mette minimamente in discussione il loro potere e le politiche liberiste.
Viceversa, Russia Unita e Putin in modo particolare dimostrano una forza in grado anche di mettere a freno, se necessario, gli appetiti dei grandi “oligarchi”.
L’enorme consenso popolare di cui, come abbiamo detto, gode Putin, lascia pensare a una realtà, in qualche modo figlia dell’Unione Sovietica, in cui la borghesia ha sicuramente ripreso il potere, ma non è riuscita tuttavia a riprendere del tutto il controllo della società, dovendosi scontrare con un apparato statale non del tutto asservito ai suoi interessi – come accade invece da noi – e probabilmente anche con una società in cui i ceti popolari mantengono una certa forza.
In termini di analisi marxista, si potrebbe ipotizzare l’utilizzo della categoria di “bonapartismo” (o “cesarismo”) per designare la presidenza di Putin. Ossia, un tipo di potere che è tipicamente figlio di un contesto in cui la lotta di classe non ha prodotto un netto vincitore, bensì una situazione di equilibrio, che lascia spazio all’emergere di personaggi in grado di trarre enorme forza e potere proprio dal saper gestire bene tale situazione di incertezza.
Un’ipotesi che deve essere certamente verificata, attraverso un attento studio e analisi.