La notizia che il cancelliere tedesco Olaf Scholz è stato a Pechino e ha incontrato il leader cinese Xi Jinping ha avuto una certa eco. Non si tratta di una “normale” visita diplomatica, se si tiene conto del contesto, ossia del clima politico nel quale è avvenuta. È altresì significativo il fatto che il capo di Stato tedesco sia il primo del G7 a far visita al suo omologo cinese, dopo le recenti chiusure dovute al Covid.
Le relazioni economiche tra Berlino e Pechino da anni rivestono un’importanza si direbbe strategica per entrambi i paesi e soprattutto per il primo. La Cina, infatti, è il più grande importatore di merci tedesche e se consideriamo che la Germania da decenni ha impostato la sua crescita economica essenzialmente sulle esportazioni, è facilmente intuibile quanto il Dragone sia assolutamente vitale per l’economia della Bundesrepublik. Soprattutto, la Cina è una destinazione importante degli investimenti diretti tedeschi, visto che numerose multinazionali tedesche sono presenti con impianti produttivi e una quota importante del loro fatturato complessivo viene realizzata in Cina.
La visita di Scholz potrebbe apparire pertanto un evento comprensibile e logico, se fosse accaduto in un periodo tranquillo per le relazioni internazionali.
A partire da quest’anno tuttavia, molte cose sono cambiate, come è noto. L’intervento della Russia nel conflitto tra Ucraina e il Donbass, e ancor di più il pesante coinvolgimento in esso della NATO, hanno prodotto uno scombussolamento nelle relazioni internazionali e una crescente polarizzazione tra i paesi occidentali, schierati in modo apparentemente compatto contro la Russia, e una lunga serie di altri paesi – con in testa la Cina – che non solo si sono rifiutati di adottare le sanzioni contro Mosca, ma al contrario, hanno potenziato gli scambi economici e i rapporti politici con essa. In modo particolare i paesi europei si sono ritrovati – non senza recalcitrazioni – a fare propria la linea degli Stati Uniti, imponendo sanzioni crescenti alla Russia e fornendo armi e risorse economiche al governo ucraino.
In un contesto in cui l’Unione Europea non è stata capace di mostrare alcuna autonomia politica, limitandosi di fatto a fare da megafono alle posizioni di Biden, la Germania ha tentato, da sola o quasi, a dire la sua e a porre dei limiti all’invio di armi e soprattutto alle sanzioni, ma con scarso successo. Il sabotaggio del gasdotto Nord Stream 1 è stato un ulteriore colpo in tal senso.
Ora, se le sanzioni sul gas e petrolio russi sembrano destinate ad avere pesanti ripercussioni sulle capacità industriali ed economiche dei tedeschi (e degli italiani), stante le carenze energetiche del vecchio continente e la difficoltà a reperire altre fonti di energia, se non a costi molto più elevati, la Germania, con questa mossa, sta tentando faticosamente di limitare i danni e di conservare e ampliare questo legame per lei vitale con la Cina.
Dall’incontro è emersa una chiara intenzione di rafforzare la cooperazione economica tra le due potenze in vari ambiti, tra cui quello energetico e dell’alta tecnologia. Inoltre appare comune tra i due paesi la volontà di evitare un’escalation nella guerra in Ucraina e soprattutto il timore che questa possa sfociare in un conflitto nucleare.
La decisione di rafforzare i rapporti con il Dragone tuttavia non è così pacifica: è noto infatti che Washington considera la Cina come un nemico ancora più pericoloso (“mortale” secondo alcuni) della stessa Russia e non perde l’occasione per tentare di provocarla, alimentando tensioni, ora su Hong Kong, ora sullo Xinjiang e negli ultimi tempi soprattutto sulla questione di Taiwan.
La visita di Scholz a Pechino appare dunque in netta contraddizione con lo spirito che regna nella NATO e anche nella stessa UE e tradisce la volontà dei tedeschi di agire per conto proprio in barba alla NATO e alle regole di Bruxelles, come d’altronde s’era già visto con lo stanziamento dei 200 miliardi di euro contro il caro energia. Questo smarcamento potrebbe presto incoraggiare anche altri paesi europei a seguire quella strada, dalla Francia a quelli minori che orbitano attorno a Berlino.
E l’Italia?
Incominciamo col dire come gli indubbi vantaggi che la Germania otterrà dagli effetti di questa visita suonano come una beffa per il nostro paese. Solo tre anni fa, infatti, l’allora Governo Conte aveva siglato – primo paese della UE – l’accordo per entrare nella BRI cinese (Belt and Road Initiative, conosciuta anche come la “Via della Seta”). Se questo si fosse sviluppato, avrebbe procurato dei vantaggi all’Italia – favorita anche dalla sua posizione geografica – la quale avrebbe acquisito un ruolo importante e di connessione negli scambi Asia-Europa, scambi con un futuro che appare promettente.
Purtroppo la sostituzione di Conte con Draghi all’inizio del 2021 ha riportato il Bel Paese ad una condizione di subalternità nei confronti degli USA, che si è tradotta nell’uscita dal BRI, oltre che ad un allineamento pressoché totale alla linea di Washington sulla Russia. Allineamento che pagheremo caro (in tutti i sensi).
A meno che non proviamo ad invertire questa tendenza e a seguire le orme della Germania.