Con la pandemia di Covid-19 e la forte crisi economica ad essa connessa, il Patto di stabilità, basato sui vincoli del 3% al deficit e del 60% al debito, era stato sospeso fino alla fine del 2023. In circa 20 anni in cui sono stati in vigore, i vincoli al debito e al deficit hanno dato una pessima prova di sé, contribuendo a determinare la stagnazione dell’economia della Ue. La crescita europea è stata talmente risicata da determinare la perdita di posizioni economiche a livello mondiale nei confronti dei Paesi emergenti, in particolare della Cina. Ad esempio, la Ue a 27 è scesa, tra 2003 e 2022, dal 19,1% al 13,8% delle esportazioni mondiali, mentre la Cina è salita dal 7,6% al 18,3%[i].
Consci di questa situazione di decadenza economica, dovuta non solamente ma certamente almeno in parte a come era stato congegnato il Patto di stabilità, la Commissione europea e molti paesi hanno colto al balzo l’occasione della sospensione del Patto di stabilità per chiederne una modifica sostanziale. Il fronte della riforma è composto dai Paesi con maggiori difficoltà debitorie pubbliche, specialmente quelli con debito superiore al 100%: Grecia (160,9%), Italia (139,8%), Francia (109,6%), Spagna (107,5%), Belgio (106,3%) e Portogallo (103,4%). Come si può facilmente osservare si tratta di una fetta molto ampia della popolazione della Ue, che comprende la seconda, la terza e la quarta economia europea. Non proprio una bazzeccola. A contrastare il fronte della riforma si è eretto il solito fronte dell’austerity e della severità di bilancio, che è rappresentato dalla Germania, unica tra le grandi economie, e dai suoi satelliti, i cosiddetti “frugali”, in particolare l’Olanda, la Danimarca, l’Austria e la Finlandia.
Il primo passaggio nella riforma del Patto di stabilità è stata la riunione dell’Ecofin, ossia il consesso dei ministri finanziari della Ue, che, su sollecitazione della Commissione europea, hanno stilato una bozza di nuovo patto, che dovrà passare al vaglio del Parlamento europeo e della Commissione europea, probabilmente entro gennaio 2024. Per ora, quindi, limitiamoci a vedere in cosa consiste la bozza concordata dai vari governi per il tramite dei loro ministri delle finanze.
Quello che appare evidente è che la montagna della Ue (o del debito pubblico europeo, se si preferisce) ha partorito un vero topolino. Chi avesse pensato che la riforma del patto avrebbe tenuto conto delle esigenze di maggiori flessibilità e trasparenza e soprattutto della necessità di maggiori investimenti pubblici manifestate da alcuni paesi, da molti economisti e dalla Commissione europea stessa è rimasto deluso. Il nuovo piano è più complesso e meno trasparente, frutto pasticciato com’è della mediazione tra la Francia – capofila dei riformatori – e la Germania – capofila dei conservatori.
L’approccio è sempre lo stesso: i Paesi con debito eccessivo devono impegnarsi, sotto la tutela degli organismi europei, in un percorso di drastica riduzione del debito, proponendo un piano di aggiustamento di durata quadriennale che è allungabile a sette anni se il Paese si impegna a seguire un programma di investimenti e riforme approvato e monitorato dalla Commissione. Ma come avverrà la diminuzione del debito? Ricordiamo che il vecchio Patto prevedeva che si dovesse ridurre il debito in 20 anni riducendo di un ventesimo all’anno l’eccedenza di debito rispetto al limite “virtuoso” del 60%. Si trattava di un obiettivo così irraggiungibile e di un meccanismo così lontano dalle specificità dell’economia dei singoli Paesi che nessuno l’ha mai messo in pratica. La sua modificazione era quindi inevitabile. Il nuovo patto di stabilità prevede, per i Paesi che superano il 90% di debito sul Pil, una riduzione del debito stesso di almeno un punto percentuale all’anno in media. Questa regola vale per tutti, contraddicendo quanto aveva raccomandato la Commissione in merito alla differenziazione da adottarsi per rispettare le specificità dei singoli Paesi.
L’altra novità riguarda il vincolo al deficit. Nel vecchio patto il vincolo di cui tener conto era di non superare un deficit del 3% del Pil. Ora il vincolo per i Paesi con debito superiore al 90% prevede che il deficit non possa superare l’1,5% del Pil. Un drastico inasprimento del vincolo. In particolare si prevede un miglioramento del deficit primario (al netto della spesa degli interessi) dello 0,4% all’anno in media se si è in presenza di un piano di aggiustamento di quattro anni e dello 0,25% se si è in presenza di un piano di aggiustamento della durata di sette anni. Come si vede il piano si incentra su troppi vincoli da rispettare simultaneamente e su regole matematiche valide per tutti senza tenere conto delle condizioni specifiche dei singoli paesi.
In tutto questo appare evidente come il grande sconfitto dell’accordo franco-tedesco sia il governo italiano della Meloni, che era partito pretendendo lo scorporo dal computo del deficit e del debito di tre importanti capitoli di spesa statali: difesa, transizione ecologica e transizione digitale. Nessuna di queste richieste è stata accolta, neanche quella riguardante le spese militari, malgrado le dichiarazioni entusiastiche in merito del ministro della difesa Crosetto. Piuttosto ambiguamente le spese per la difesa saranno considerate “un fattore rilevante nella definizione dell’aggiustamento”. L’unica concessione dei Paesi fautori della severità di bilancio ai riformatori, in particolare alla Francia, è quella del regime transitorio tra 2025 e 2027, durante il quale il costo del servizio al debito – cioè il pagamento degli interessi sui titoli di Stato – non verrà considerato, permettendo di limitare l’onere dell’aggiustamento del deficit. È un escamotage utile a molti governi attualmente in carica, che non varrà per i governi successivi.
Significative dei limiti del nuovo patto e della sconfitta del governo Meloni sono le parole del ministro delle finanze italiano, Giancarlo Giorgetti: “Noi abbiamo chiesto un trattamento diverso per le spese nella difesa e negli investimenti per le transizioni digitale e verde per ragioni che nascono dal senso della storia. Nei prossimi anni questi sono i filoni fondamentali dello sviluppo, e l’Europa li affronterà con le mani legate dietro la schiena mentre Stati Uniti e Cina ci arriveranno con ben altro slancio. Purtroppo però l’Europa non è riuscita a darsi una postura politica e a spiccare il volo”[ii]. Infatti, l’investimento europeo in questi settori appare veramente esiguo, specie se consideriamo che gli Usa hanno stanziato per la doppia transizione, soprattutto quella digitale, 280 miliardi di dollari attraverso il Chips and Science Act e 369 miliardi di dollari attraverso l’Inflation Reduction Act. Il giudizio complessivo di Giorgetti sul nuovo patto è lapidario: “…il testo finale è frutto di un lavoro di aggiunta e superfetazione, una sorta di Zibaldone in cui sono perfettamente riconoscibili le parti chieste dalla Germania, dalla Francia dall’Italia e così via. Questo non faciliterà i passaggi successivi, da quello nel Parlamento europeo fino al trilogo.”[iii]
Quindi, il nuovo patto, nella sua formulazione provvisoria peggiora la proposta originaria della Commissione europea fino a ottenere un quadro più complesso e meno trasparente. Soprattutto non rappresenta un vero miglioramento rispetto al patto precedente, anzi per qualche verso presenta addirittura un peggioramento. Eppure le crisi che si sono succedute negli ultimi anni – la crisi dei mutui del 2008, la crisi del debito del 2011 e la crisi del covid-19 del 2020 – hanno dimostrato che le rigidità delle regole sul deficit e sul debito rendono le crisi, che ricorrentemente interessano il modo di produzione capitalistico, ancora più devastanti. Ai vincoli di bilancio si è sommata la stretta sui tassi d’interesse – il costo del denaro – praticata dalla Bce per combattere l’inflazione, che ha reso ancora più difficile per le imprese prendere a prestito denaro per fare nuovi investimenti e ha contribuito a far ripiombare l’Ue nella stagnazione dopo la ripresa post lock down del 2021.
Di fronte alla carenza di investimenti produttivi privati, che mette piombo sulle ali dell’economia europea, l’unica soluzione sarebbe l’intervento dello Stato mediante investimenti pubblici. Ma, come abbiamo visto, le regole europee lo impediscono, senza contare che l’esigenza di tagliare il debito dell’1% in media annua determina il restringimento delle spese sociali, a partire dalla spesa sanitaria. Secondo gli analisti del Bruegel, un think tank belga, le nuove regole obbligano l’Italia a un avanzo primario (cioè all’eccedenza delle entrate sulle uscite, al netto degli interessi sul debito) del 3,3% del Pil fino ad arrivare al 4,7%, per rispettare la clausola della discesa media del debito dell’1%. Si tratterebbe di accantonare nel bilancio pubblico una cifra enorme, pari a circa 90 miliardi all’anno, prima di pagare gli interessi[iv].
L’impossibilità a dare luogo a una vera riforma del patto di stabilità è l’ulteriore conferma della strutturale irriformabilità della Ue e soprattutto della conseguente impossibilità a far fronte alla decadenza economica dell’Europa di fronte alle altre principali realtà geopolitiche, quali Usa e Cina. La Ue del resto non è un vero organismo sovrannazionale bensì un organismo intergovernativo, che prende le sue decisioni mediante una faticosa negoziazione tra Stati con economie diverse e con interessi non conciliabili. Appare così chiaro che i trattati europei rappresentano una gabbia per le economie continentali, che per i singoli stati non è possibile superare se non con l’uscita dalla Ue stessa.
[i] Eurostat, database. Share of European Union EU27 (from 2020) in the World Trade [ext_lt_introeu27_2020]
[ii] Gianni Trovati, <<Nel nuovo patto molte richieste italiane il superbonus finisce qui: al 204 chiedo un cambio di rotta della Bce>>, “Il Sole24ore”, 31 dicembre 2023.
[iii] Ibidem. Il trilogo è un negoziato interistituzionale informale tra rappresentanti del Parlamento europeo, del Consiglio dell’Unione europea e della Commissione europea.
[iv] Gianni Trovati, Patto Ue, per l’Italia ipotesi correzione da 12 miliardi l’anno, “Il Sole24ore”, dicembre 2023.