Non è facile stabilire con esattezza il numero degli iscritti ai vari sindacati. I dati che si trovano su internet, e nemmeno tanto agevolmente, arrivano al massimo fino al 2017.
Ma il problema principale sta nel fatto che non si sa con precisione quanto questi dati siano realmente attendibili. Il numero che le varie sigle sindacali riportano sui propri iscritti non è, in linea di massima, verificabile, ma è sicuramente superiore a quello reale.
Laddove è possibile un facile confronto, ad esempio sui pensionati, si vede come i dati dell’INPS risultano sistematicamente inferiori a quelli riportati dalle sigle (in alcuni casi, come ad esempio, dell’UGL, la differenza è abissale).
Al netto di questo, però, è possibile effettuare un breve panorama sugli iscritti e sulle categorie di questi.
Incominciamo dal sindacato più grande e rappresentativo, ossia, la CGIL.
I dati ufficiali dicono che il numero degli iscritti al più grande sindacato italiano ha –nel periodo tra il 2007 e il 2017- un andamento altalenante, che oscilla attorno alla cifra di 5,6 milioni, ma con un leggero calo negli ultimi 3 anni (secondo diverse fonti, tra cui la Demoskopea, tale calo è, in realtà, assai più consistente).
La componente dei pensionati, dopo essere stata per lunghi anni poco più della metà degli iscritti (52%), appare in leggero calo nel 2017, raggiungendo quota 49,8%.
Tra le categorie, negli ultimi dieci anni, la CGIL perde iscritti in modo costante tra i metalmeccanici (dal 6,3% del 2007 al 5,9% del 2017) e nella funzione pubblica, mentre aumentano i tesserati nel settore del commercio.
Per quanto riguarda la CISL i dati ufficiali riportano un netto calo di iscritti dal 2007 (4,43 milioni) al 2017 (4,04 milioni), ossia ben 400 mila iscritti in meno.
Qui la componente dei pensionati appare in continuo ribasso. Era il 49,4% nel 2007 ed è il 42,4% nel 2017.
Stabile la componente dei metalmeccanici e in forte aumento la categoria del commercio.
I dati sugli iscritti che riporta la UIL sono all’incirca 2 milioni. Fra i tre grandi sindacati confederali, la UIL appare essere l’unico in crescita –anche se molto contenuta- di iscritti.
Qui la componente dei pensionati è la più bassa, risultando attorno al 30% degli iscritti.
Ancora più arduo è stabilire il numero degli iscritti agli altri sindacati.
In modo particolare, l’UGL nel 2012 aveva dichiarato di avere quasi due milioni di iscritti. Ma il dato è senza ombra di dubbio gonfiato, e anche di molto. Secondo la Confsal il numero reale degli iscritti UGL sarebbe addirittura meno di un decimo, ossia solo 150 mila.
Mentre l’USB si attesterebbe, invece, sui 250 mila iscritti.
In generale, si nota, quindi che, in linea di massima, la componente dei pensionati è elevatissima nel numero degli iscritti ai vari sindacati, sfiorando il 50%. E anche l’età media degli iscritti è molto elevata. Nel 2015 gli under 35, nella CGIL, erano a malapena il 17%. Situazione simile la troviamo nelle altre sigle sindacali.
Il tasso di sindacalizzazione –ossia, il rapporto tra il numero dei lavoratori tesserati rispetto al totale degli occupati- in Italia risulta poco sopra il 30% (33,8% nel 2010).
Il bel paese occupa, in questo, una posizione intermedia a livello europeo. I paesi col più elevato tasso di sindacalizzazione sono quelli scandinavi (Svezia 76%), ma anche Cipro e Belgio, mentre la Francia registra solo l’8,6%. Basso è anche il tasso della Spagna e di diversi paesi dell’Est Europa. In Germania questo si assesta sul 20%.
Il tasso di sindacalizzazione, tuttavia, basandosi solo sul numero di iscritti ai sindacati, dice poco sul livello di combattività dei lavoratori in un determinato paese, né tantomeno sulla garanzia dei diritti e del salario di quest’ultima. E’ noto, ad esempio, che la Francia e la Grecia, paesi dove le lotte sono particolarmente frequenti e soprattutto combattive ed incisive, presentano un tasso di sindacalizzazione più basso dell’Italia. Nella prima è addirittura un quarto dei quello dell’Italia.
Infatti, l’approccio concertativo della CGIL fa sì che le varie rivendicazioni della classe lavoratrice, o la difesa dei relativi diritti, non sfocino –o lo fanno molto di rado- in episodi conflittuali.
Infatti, i giorni di sciopero in Francia sono, mediamente, all’incirca il doppio di quelli dell’Italia. Infatti, secondo l’ILO (International Labour Organization) nel 2008 in Francia sono stati “persi” 1 milione e 418 mila giorni di lavoro, a causa di scioperi (o serrate), mentre da noi poco più della metà (723 mila).
Tale differenza spicca ancora di più se contiamo i giorni di sciopero per mille lavoratori, che nel 2006 sono stati 116 nel paese transalpino e solo 32,8 in Italia.
Ciò accade non solo perché i sindacati francesi – come la CGT – sono assai più combattivi di quelli italiani, ma anche perché le leggi italiane sul diritto di sciopero sono diventate, negli ultimi anni, molto più restrittive e severe. E ciò si è verificato con il sostanziale consenso dei grandi sindacati confederali, i quali sono, via via, sempre meno interessati allo sciopero come strumento di lotta.