L’egemonia degli Usa a livello geopolitico si basa in parte sul fatto che la loro valuta, il dollaro, è moneta di riserva internazionale. Le banche centrali di tutto il mondo, specie quelle estremo orientali e delle petromonarchie arabe, detengono una grande quantità di dollari come riserva da utilizzare in caso di bisogno. In particolare, vengono acquistati dollari sotto forma di titoli di Stato statunitensi, permettendo così agli Usa di indebitarsi a loro piacimento. Un pilastro dell’egemonia del dollaro è il legame con il petrolio, la più importante delle materie prime, che viene venduto in dollari, da cui il termine di petrodollaro. Questo legame, però, recentemente è stato messo in crisi dalle sanzioni che gli Usa hanno messo in atto specialmente contro la Russia in occasione della guerra in Ucraina.
Ma andiamo con ordine e vediamo l’origine del petrodollaro. Nel 1971 il presidente statunitense Nixon aveva sganciato il dollaro dall’oro: i paesi che esportavano negli Usa non avrebbero più avuto la possibilità di essere pagati in oro, convertendo i dollari nel minerale prezioso. Nel 1973, sempre Nixon aveva stabilito un accordo con il re dell’Arabia Saudita, Faisal bin Abdulaziz Al Saud, per sostenere con il petrolio il dollaro, ormai sganciato dall’oro. L’Arabia saudita si impegnava a vendere il proprio petrolio in dollari, in cambio gli Usa si impegnavano a difendere la sicurezza del regno, rifornendolo di armi e garantendo appoggio militare in caso di necessità.
Dopo cinquant’anni questo accordo sembra essere stato messo in crisi dall’avvento di un nuovo multipolarismo. Le sanzioni hanno giocato un ruolo importante, perché il dollaro è una moneta fiat, cioè basata sulla fiducia, in questo caso sulla fiducia che gli altri Paesi e le loro banche centrali ripongono nel governo degli Usa. È proprio questa fiducia che recentemente è stata incrinata. Infatti, gli Usa hanno espulso la Russia dal sistema di pagamenti internazionale Swift e soprattutto bloccato in Europa e Usa la metà (circa 300 miliardi di dollari) delle riserve internazionali della banca centrale russa. Questo ha messo sull’avviso tutte le banche centrali dei Paesi che hanno riserve in dollari in Europa e Usa, dato che l’azione sanzionatoria degli Usa dimostra che queste riserve sono tutt’altro che sicure e che sono soggette agli umori politici del governo degli Stati Uniti.
Quindi, molti Paesi non hanno più molto interesse a che il dollaro sia valuta di scambio internazionale. Di conseguenza il dollaro non domina più incontrastato gli scambi internazionali di petrolio, che sempre di più avvengono in valute diverse dal dollaro. Secondo JP Morgan, già ora un quinto di tutte le transazioni di petrolio mondiali avviene in altre valute. Questa quota dovrebbe allargarsi con l’ingresso di tre forti produttori di petrolio, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Iran, nella cerchia dei Brics, il club delle economie emergenti che riunisce Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa.
Questi tre Paesi entreranno, a partire dal 1° gennaio 2024, insieme ad Argentina, Egitto ed Etiopia, nei Brics, che a questo punto raccoglieranno una parte importante dei maggiori esportatori e importatori mondiali di petrolio, che sono accomunati dal desiderio, per diverse ragioni, di ridimensionare il ruolo del dollaro e delle istituzioni economiche internazionali che ne sostengono il ruolo di moneta egemone. I Brics hanno anche una banca, la Nuova banca di sviluppo, presieduta da Dilma Rousseff, ex presidente del Brasile, che punta a sostenere le economie emergenti con aiuti in valute differenti dal dollaro. In questo modo molti Paesi periferici vengono sottratti all’influenza di istituzioni come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, che sono controllate dagli Usa e dai Paesi del G7, l’altro club internazionale che, oltre agli Usa, riunisce Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Canada e che si pone in competizione con i Brics.
Intanto, il ruolo del dollaro viene ridimensionato anche nei mercati finanziari collegati al petrolio. Qui l’influenza del dollaro nell’andamento dei prezzi del barile di petrolio sta venendo meno. In particolare viene meno quella correlazione inversa per la quale quando il dollaro si rafforzava il prezzo del petrolio calava. Sempre più spesso capita che il prezzo del petrolio salga nel mentre il dollaro si apprezza nei confronti di altre valute, penalizzando così doppiamente i paesi importatori di petrolio come l’Italia. Secondo JP Morgan, tra il 2005 e il 2013 un aumento dell’1% del dollaro provocava un ribasso del 3% del prezzo internazionale del petrolio. Invece, tra 2014 e 2022 provocava una discesa di appena lo 0,2%. La ragione di questo cambiamento, sempre secondo JP Morgan, sta nelle prime sanzioni statunitensi elevate contro la Russia nel 2014, in occasione dell’annessione della Crimea, che hanno provocato l’aumento degli acquisti del petrolio russo in valute differenti dal dollaro.
Il divorzio tra dollaro e petrolio ha effetti collaterali sul debito pubblico Usa, dal momento che spesso i petrodollari sono stati riciclati in titoli di Stato statunitensi, contribuendo a rafforzare lo status di valuta di riserva internazionale del dollaro. I Paesi petroliferi hanno ridotto gli acquisti di titoli di stato Usa anche in periodo di rialzo delle quotazioni del petrolio. In particolare l’Arabia Saudita l’anno scorso ha incassato dalle vendite di petrolio la cifra record di 326 miliardi di dollari, ma allo stesso tempo ha venduto titoli di Stato Usa, riducendone il valore in portafoglio ai minimi da sei anni (108,1 miliardi di dollari a giugno). Particolarmente significative sono state le parole pronunciate al forum di Davos dal ministro delle Finanze saudita, Mohammed Al-Jadaan, secondo cui l’Arabia Saudita: “non ha alcun problema a discutere come regolare gli accordi commerciali, in dollari statunitensi, in euro, o in riyal sauditi”[i]. Queste parole del ministro saudita mettono la pietra tombale sul petrodollaro. Intanto i rapporti dell’Arabia Saudita con la Cina e in parte con la Russia si fanno sempre più stretti. A dimostrarlo è anche il ruolo di mediazione svolto dalla Cina nel recente avvicinamento diplomatico tra Arabia Saudita e Iran, che da lungo tempo erano rivali nell’area del Golfo persico e che ora sono entrati entrambi nei Brics.
Tra i Paesi che si stanno muovendo per attenuare l’isolamento economico della Russia ci sono anche gli Emirati Arabi Uniti e l’India che è divenuta uno dei maggiori importatori di petrolio russo, pagato anche in rupie e dirham emiratini. l’Iraq, altro importante produttore di petrolio, ha annunciato che accetterà pagamenti in yuan renminbi dalla Cina. Quest’ultima, intanto, a marzo per la prima volta nella storia ha effettuato più transazioni commerciali internazionali con la propria valuta che con il dollaro. Sempre a marzo la Cina ha comprato per la prima volta in yuan gas liquefatto da una compagnia francese, TotalEnergies, attraverso la Borsa petrolifera e del gas naturale di Shangai, dove, fra l’altro, si negoziano future sul petrolio denominati in valuta cinese. Proprio la borsa di Shangai è uno degli strumenti utilizzati dalla Cina per incrinare il predominio del dollaro sui mercati finanziari e favorire l’ascesa dello yuan come valuta internazionale.
Per ora il dollaro è senza rivali come valuta di riserva anche se la sua quota nelle riserve delle banche centrali è calata dal 71% del 1999 al 59% del 2022, secondo il Fondo monetario internazionale. Ad ogni modo, la tendenza alla de-dollarizzazione non è mai stata così forte come ora. A dimostrarlo è anche l’accumulo di riserve in oro da parte delle banche centrali a ritmi che non si vedevano dal 1950. Se il petrodollaro continua il suo declino, come sembra dall’analisi del mercato del petrolio, la de-dollarizzazione prosegue e con essa il declino del dollaro come valuta di riserva mondiale, con conseguenze disastrose per gli Stati Uniti. Soprattutto per la gestione del loro doppio debito, quello pubblico e quello commerciale, che di fatto gli permette di vivere al di sopra delle proprie possibilità a spese del resto del mondo.
[i] Sissi Bellomo, “Il lento tramonto del petrodollaro indebolito da sanzioni e shale oil”, Il Sole 24 ore, 5 settembre 2023.