Le elezioni del 25 settembre si terranno in un quadro complessivo fortemente deteriorato e in via di peggioramento per quanto riguarda la fase finale del 2022 e soprattutto il 2023. Chiunque vincerà la competizione elettorale si troverà ad affrontare una situazione difficile, caratterizzata da un peggioramento delle condizioni economiche e sociali a livello interno e da un inasprimento delle contraddizioni internazionali.
Il quadro economico
Cominciamo dal quadro economico. L’Italia viene fuori da una recessione, durante la fase del Covid 19, che era stata tra le più profonde tra i Paesi avanzati. Nel 2021 la crescita è stata forte, ma non tale da permettere una ripresa completa fino ai livelli economici pre-pandemia. Il 2022, secondo l’Ufficio Parlamentare di bilancio (Upb), dovrebbe chiudersi con una crescita del Pil del 3,2%. I problemi emergeranno nel 2023. Infatti, le sanzioni economiche contro la Russia stanno realizzando lo scenario peggiore tra quelli ipotizzati dagli analisti. I tagli all’esportazione di gas verso l’Europa operati dalla Russia come risposta alle sanzioni e all’invio di armi all’Ucraina, unitamente alla siccità che ha ridotto la produzione idroelettrica e alla fermata delle centrali nucleari in Francia, hanno accentuato la crescita dei prezzi delle materie prime energetiche. L’inflazione in Italia ad agosto ha raggiunto l’8,4%, un livello mai così alto dal dicembre 1985.
Si tratta di un fatto estremamente grave per economie, come quelle italiana e tedesca, che sono basate sulla trasformazione manifatturiera orientata all’export. L’Italia per la prima volta dal 2011, dopo anni di surplus commerciali, farà segnare nel 2022 un saldo negativo, proprio a causa dell’aumento dei prezzi delle importazioni di gas e di altre materie prime energetiche. Il peggioramento della bilancia degli scambi di beni e servizi con l’estero renderà più difficile anche la gestione dell’enorme debito pubblico. Sempre Upb, ad agosto, rivedeva al ribasso le stime del Pil italiano per il 2023 a un misero +0,9%. Ma le previsioni potrebbero peggiorare ulteriormente, come stima l’agenzia di rating Fitch, secondo cui il Pil italiano calerà del -0,7%. In sostanza, l’Italia dovrebbe trovarsi nel prossimo anno in una difficile situazione di recessione o di stagflazione, ossia di stagnazione economica e alta inflazione, che si tradurrà in un peggioramento dei bilanci familiari e, quindi, in effetti depressivi sui consumi, e, secondo Confcommercio, nella possibile chiusura di 120mila imprese entro la prima metà del 2023.
Il quadro internazionale ed europeo
Anche per quanto attiene il quadro internazionale la situazione va verso un rapido peggioramento. La guerra in Ucraina è molto lontana dal concludersi e con essa le tensioni sui prezzi delle materie prime energetiche. Zelensky, a seguito della offensiva recentemente lanciata dalle sue forze armate, ha dichiarato che la guerra non si concluderà che con la riconquista della Crimea. Le dichiarazioni di Zelensky sono tese a sollecitare l’invio di massicci quantitativi di armi dall’Occidente. A questo proposito bisogna rimarcare che il governo Draghi si è dimostrato fortemente atlantista, essendo stato molto più deciso di altri Paesi nella adesione alle sanzioni verso la Russia e alle decisioni della Nato e degli Usa. Infatti, il governo Draghi, nonostante sia dimissionario, ha fatto sì che l’Italia sia il primo Paese nella Ue e il secondo Paese in Europa, dopo il Regno Unito, per la fornitura a Kiev di mezzi militari, a cominciare dall’artiglieria rivelatasi decisiva. Sull’atlantismo non emergono differenze tra il governo e l’opposizione di Fratelli d’Italia, dato che la Meloni ha più volte ribadito la sua fedeltà alla Nato e all’alleanza con gli Usa e soprattutto l’appoggio militare occidentale all’Ucraina.
Il quadro internazionale non sarebbe completo se non prendessimo in considerazione la Ue. Draghi al meeting di Rimini ha detto che è fiducioso qualunque governo venga formato. La ragione è molto semplice: c’è un pilota automatico che garantisce le élites economiche e il capitale nel suo complesso. Si tratta delle regole di bilancio europee e del ruolo della Bce nonché della realizzazione del Pnrr che si basa sullo scambio tra i fondi “europei” e l’attuazione di determinate riforme. Chiunque vada al governo dovrà fare i conti con le regole e i lacci e lacciuoli europei. Si tratta di una logica preoccupante. Infatti, dopo la sospensione dei vincoli europei al deficit e al debito pubblico e le politiche espansive seguite alla pandemia, la Bce ha operato una stretta monetaria alzando il costo del denaro e la Commissione ha richiamato i Paesi europei a una maggiore disciplina di bilancio. E tutto questo in presenza di una preoccupante recessione o stagflazione, come abbiamo visto. Sarebbe, invece, il momento di attuare una nuova politica espansiva.
Ma anche per questo particolare aspetto, l’integrazione europea, la crisi ha inciso profondamente producendo delle fratture tra le élites europee, delle quali una parte sente come inadeguate le regole di bilancio europee, tanto che nel prossimo futuro si discuterà, tra i governi europei, della riforma di quelle regole. Lo stesso Draghi, sempre al meeting di Rimini ha affermato: “[Le regole europee di bilancio] sono poco credibili, poco trasparenti e non permettono di utilizzare la politica di bilancio in modo efficace durante una recessione. Inoltre, non è chiaro come le ambizioni dell’Unione Europea in termini di politica industriale, transizione ecologica, difesa comune possano essere compatibili con queste regole. Non è chiaro come, con esse, si possa costruire un “sovranità europea”, un obiettivo oggi importante alla luce delle condizioni geopolitiche in Europa.” Si tratta evidentemente di una proposta di riforma tesa a garantire la sopravvivenza dell’Unione Europea da un punto di vista degli interessi del grande capitale finanziario, di cui Draghi è espressione. Il Problema è che il tema della riforma delle regole europee, a cui dovrebbe partecipare il governo che uscirà dalle elezioni del 25 settembre, è quasi del tutto assente nel dibattito elettorale. Non casualmente, dato che le competizioni elettorali avvengono tra forze maggiori che sui temi decisivi sono d’accordo. Ma, visto che la riforma delle regole europee apre lo spazio per una rinnovata critica all’Europa, è fondamentale che tale spazio venga sfruttato da parte delle forze anticapitalistiche.
Il quadro politico
Il quadro politico conferma l’instabilità che caratterizza il sistema politico italiano dalla caduta dell’ultimo governo Berlusconi e dalla crisi del debito pubblico del 2011-2012. Per la verità l’instabilità caratterizza un po’ tutta la politica dei Paesi dell’Europa occidentale, ma in Italia sembra essere particolarmente accentuata. Nei fatti non esiste più un vero bipolarismo anche se, in qualche modo, sono state costituite due principali aggregazioni di centro-sinistra e di centro-destra. Però, quella di centro-sinistra, per esplicita dichiarazione di Letta, non è una coalizione politica, bensì solo una aggregazione elettorale; mentre quella di centro-destra vede una marcata conflittualità, a volte esplicita, tra le forze politiche che la compongono, Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, specialmente tra queste ultime due. Comunque anche in Italia, come in altri Paesi (si vedano le ultime elezioni svedesi in cui il partito democratico, arrivato secondo e di estrema destra, ha trainato la vittoria di stretta misura del centro-destra), l’alternanza non è più quella tradizionale del passato tra le sezioni nazionali del partito socialista europeo (Pse) e del partito popolare europeo (Ppe), visto anche il declino di Berlusconi e Forza Italia, rappresentante del Ppe in Italia. L’instabilità è determinata da due caratteristiche: la volatilità del voto e la frammentazione dell’offerta politica. L’estrema volatilità del voto è dimostrata dai rapidi spostamenti di consenso che si realizzano in poco tempo. Ad esempio, Fratelli d’Italia, beneficiata dal suo passaggio all’opposizione del governo Draghi, è passato nel giro di poco tempo dal 4,35% delle elezioni 2018 a percentuali sempre più alte, fino ad arrivare al 25,1%, di cui viene accreditato dall’ultimo sondaggio preelettorale dell’Ipsos di Pagnoncelli. Forza Italia, la Lega e il Movimento cinque stelle, invece e proprio per la partecipazione al governo Draghi, hanno perso molte posizioni, specialmente quest’ultimo, che da primo partito con il 32,68% è scivolato in quarta posizione per poi risalite in terza posizione con il 14,4% delle intenzioni di voto, sempre secondo Pagnoncelli.
La volatilità del voto e l’instabilità dell’elettorato è anche alla base della frammentazione del voto e della moltiplicazione delle forze politiche che si presentano alle elezioni. Ci sono i due poli tradizionali, più o meno uniti, e altri poli in competizione, il centro di Calenda e Renzi e il Movimento cinque stelle, senza contare la pletora di forze “antisistema” che si presentano alle elezioni. Il punto è che tra le forze maggiori, Fratelli d’Italia e Pd, non ci sono rilevanti differenze sui temi più importanti – sanzioni alla Russia, invio di armi all’Ucraina, riarmo dell’Italia, adesione alla Nato, sovvenzioni economiche alle imprese e tagli al cuneo fiscale, attenzione a non creare scostamenti di bilancio – e la divisione semmai riflette quella classica sui diritti civili e l’immigrazione. Questioni, queste ultime, importanti, ma certo meno decisive della collocazione internazionale dell’Italia e della politica economica e di bilancio pubblico. Ad ogni modo, il quadro economico, politico, internazionale è così problematico che non è del tutto azzardato prevedere che un governo presieduto dalla Meloni, alla prova dei fatti e in virtù della strutturale volatilità del voto, crolli nei consensi e, davanti alle difficoltà di una fase che vede questioni capitali come la riforma delle regole europee, lasci il passo all’ennesimo governo tecnico o di larghe intese come vogliamo chiamarlo.
Infine, vale la pena dedicare una attenzione particolare al Movimento cinque stelle, la vera novità politica dell’ultimo quindicennio. Il crollo dei consensi e l’esplosione del gruppo parlamentare in molteplici e opposte direzioni, da Rifondazione comunista e Partito comunista fino all’alleanza elettorale con il Pd (Di Maio) e a Italexit (Paragone), dimostrano il fallimento del Movimento nella realizzazione di quella trasformazione che si proponeva di attuare a causa della totale inadeguatezza ideologica, organizzativa e politica. Il fatto che Conte si ritrovi con una compagine parlamentare molto più esigua di inizio legislatura la dice lunga sulla inadeguatezza del personale politico e sugli errori commessi, primo fra tutti la partecipazione al governo Draghi e il carattere ondivago delle proprie posizioni politiche su questioni centrali.
In pratica, quello del Movimento è il fallimento dell’ennesima e più estrema concretizzazione del modello di partito leggero, senza ideologie precise, senza organizzazione e radicamento sociale e territoriale. E soprattutto è il fallimento di una ideologia, tipica della fase politica aperta da “Mani pulite”, secondo la quale la crisi non deriva dal modo di produzione capitalistico ma dalla inadeguatezza etica del ceto politico. La trasformazione di sistema, sempre secondo questa ideologia, deriva non dalla modifica dei rapporti sociali bensì da un afflato moralistico, la lotta degli “onesti” contro i “corrotti”. Alla prova dei fatti il fronte degli “onesti” si è frantumato in mille pezzi in cui la difesa del proprio particolare e della poltrona ha giocato un ruolo importante. Tuttavia, Conte è stato abbastanza abile negli ultimi mesi cercando di salvare il salvabile. Dopo aver fatto l’errore di entrare nel governo Draghi (e votare l’invio di armi e le sanzioni alla Russia), non ha fatto l’errore della sinistra radicale nel 2006-2008 che è morta, abbracciata fino all’ultimo al governo Prodi, ma è uscito dal governo Draghi e sta cercando di posizionare il Movimento su questioni come quella dell’opposizione al riarmo. Senza contare che, nel Mezzogiorno, Conte può agitare la bandiera del reddito di cittadinanza, la cui abolizione è invece la bandiera della Meloni, che probabilmente pagherà questa sua posizione in termini di consenso. Tuttavia, il punto è la tenuta di Conte sulle posizioni che sta assumendo. Soprattutto la capacità sua, e di quel che rimane del Movimento, di mantenere certe posizioni e di trarne le conseguenze più ovvie: l’uscita dalla Nato e dalla Ue. Di questo non crediamo che il Movimento, strutturalmente ondivago e destrutturato ideologicamente, sia capace.
Il voto utile
Alle elezioni del 25 settembre il voto utile non è certo per il Pd, che, oltre a essere espressione pura dell’establishment industriale e finanziario, è sicuramente molto lontano dalla vittoria, né per Sinistra italiana, che è subalterna al Pd, né per il Movimento 5 stelle che ha dimostrato tutta la sua inadeguatezza. Oggi il voto utile è quello teso a far rientrare una rappresentanza genuinamente di sinistra delle classi subalterne in Parlamento. Una ricostruzione che sicuramente non va intesa come un obiettivo fine a sé stesso, ma come un passaggio, pur con tutta la sua parzialità e insufficienza, utile a ricostituire sulla lunga distanza una forza politica e forse in un futuro, non sappiamo quanto lontano, un nuovo partito politico comunista, che sia radicato nelle lotte e nelle classi subalterne. Infatti, non ha senso dire che viene prima l’uovo (la rappresentanza in Parlamento) o prima la gallina (il radicamento nella classe lavoratrice). Oggi, nell’attuale conformazione sociale, una minima sponda politica generale e quindi anche parlamentare è ineludibile se vogliamo che le lotte, che, sebbene frammentate, esistono, possano avere quella sponda richiesta dai lavoratori in lotta, e svilupparsi su un piano non meramente economico ma politico, fino a diventare di critica generale all’ordine politico e economico esistente. L’importante è che questa aggregazione esprima anche in Parlamento posizioni di alto profilo come la critica delle alleanze internazionali dell’Italia, a partire dall’uscita dalla Nato e per finire con l’uscita dalla Ue.
Il voto ad Unione Popolare
Senza dubbio Unione Popolare è la lista che in questa tornata elettorale si avvicina a tale esigenza e potenzialità. Una sua affermazione e un eventuale ingresso in Parlamento potrebbe riaprire una stagione in cui il dibattito pubblico abbia di nuovo in campo un punto di vista vicino alle esigenze e aspettative delle classi subalterne. Per questo riteniamo che il voto ad UP oggi sia il più utile.
Le elezioni costruite con una campagna elettorale lampo, per mettere al riparo Draghi dalla tempesta di autunno e l’eventuale nuovo esecutivo politico di fronte alla gestione di un contesto complicatissimo, senza dubbio non hanno favorito la visibilità di UP nata appena due mesi fa. Ed è proprio questo il punto. Sono anni che le forze comuniste e la cosiddetta sinistra radicale costruiscono soggetti unitari a pochi mesi dalle elezioni per poi sfasciarli il giorno dopo. Di fronte al quadro attuale, in cui i nodi sul terreno generale stanno venendo al pettine ed in cui esiste uno spazio enorme per ricandidare una coerente battaglia di cambiamento radicale, ripetere gli stessi errori allontana il tempo di ricostruzione di un’opzione politica di classe. L’elettoralismo fine a sé stesso incapace di legarsi ad un progetto generale di ricostruzione non può pagare. I primi ad accorgersi dell’inganno sono gli elettori.
In passato chi scrive ha rotto con le organizzazioni politiche di appartenenza proprio in dissenso con questo loop ossessivo. Anche in questo caso il primo errore si è ripercorso: UP nasce evidentemente in fretta e furia in vista delle elezioni. Non ripetere il secondo sarebbe già un notevole passo avanti. Cosa sarebbe stata oggi UP se in passato Potere al Popolo, il Prc e gli altri che la compongono avessero contenuto la dialettica interna per dare forza sulle questioni decisive ad una proiezione esterna politicamente efficace? Forse oggi non staremmo a sperare nel 3%, ma in un livello superiore del suo ruolo nello scontro politico nel Paese.
Il Movimento cinque stelle, nonostante abbia votato l’invio delle armi in Ucraina, abbia governato con Draghi, si sia trasformato mille volte in base alla sua essenza onnivora perdendo anime e pezzi legati a settori sociali in contrapposizione tra loro, ancora risulta attrattivo per molti compagni e compagne. Perché? Proprio per l’assenza di una forza credibile e consolidata che, per un periodo adeguato, sia stata in grado di giocare qui ed ora una battaglia per l’alternativa e sia stata percepita una sponda generale alle lotte parziali che si sono prodotte.
Ecco, UP dovrebbe proseguire dopo le elezioni. Se riuscirà ad entrare in Parlamento sarà un grandissimo risultato, se non ci riuscirà il voto sarà comunque stato utile se il progetto proseguirà, acquisirà visibilità e attorno a campagne politiche che sostengano le lotte presenti nel Paese diventi un punto di riferimento potenzialmente stabile come in Francia ed in Europa lo è diventato in maniera straordinaria la France insoumise di Melenchon.
La ricostruzione soggettiva ha bisogno di un processo lungo connesso con una prassi che sappia evolversi nel divenire storico. Le forze che hanno promosso UP dovrebbero essere il lievito in grado di alimentare un’area politicamente vasta, non un freno. Su questo si gioca la scommessa. Se, invece, tutto si concluderà nel ritorno dei piccoli recinti, sicuri e asfittici, anche questa occasione andrà persa e altre energie sprecate. Ad una settimana dal voto, facciamo prevalere la fiducia che si possa produrre una svolta: votiamo Unione Popolare.
Domenico Moro Fabio Nobile